Qualche anno fa discutemmo della guerra contro Gheddafi. Noi allora ci interrogavamo, come oggi, su come affrontare le contraddizioni della guerra globale permanente, nella nuova fase che emergeva dalla primavera araba. Ci chiedevamo se fosse possibile condannare in modo assoluto l’intervento francese che aveva salvato Bengasi dal massacro. Poco dopo ci trovammo circondati di amici siriani (tra i quali molti palestinesi di Damasco) che auspicavano un bombardamento Nato del loro paese e magari un protettorato americano pro-tempore (come potevano non vedere ciò che accadeva in Iraq come un segno premonitore dei più nefasti scenari?).
Nel corso dei numerosi momenti di conversazione e confronto con diversi compagni, alcuni concetti chiave ci hanno poi aiutato a orientare la sempre più complessa riflessione sull’evolversi di questa mostruosa guerra senza quartiere e senza confini definiti. Su tutti, due affermazioni:
– l’intervento in Libia serve a bloccare le primavere arabe e soffocarle nella guerra.
– piuttosto che i bombardamenti delle ex colonie “guerra civile fino in fondo”.
Entrambe ci sono ancora molto utili per leggere quello che accade in Siria. Da una parte è oggi evidente come la guerra e la deriva militare del confronto sia stata la strategia con cui sconfiggere le primavere arabe di Piazza Tahrir che evocavano piazze resistenti, disobbedienza civile radicale, anche armata, ma mai sullo stesso piano dell’esercito.
Oggi la contraddizione si è approfondita e la cassetta degli attrezzi appare inadeguata. Il movimento No War che 15 anni fa ha perso ci lascia un patrimonio importante, quello della demistificazione del discorso dominante, a partire dalla comprensione delle responsabilità Occidentali. L’articolo di Fisk su Indipendent rappresenta abbastanza bene questa capacità di leggere criticamente il nemico che è a casa nostra e il retaggio coloniale e neoco(n)loniale.
Però la sola presenza del Pkk nella zona apre altri scenari: da un lato ci consente di guardare da una prospettiva che non ci è nemica, anzi con cui possiamo identificarci, (e che consegna una caratteristica rivoluzionaria o quantomeno progressiva a una delle fazioni della guerra civile), dall’altro apre l’interrogazione sul rapporto con gli eserciti, Nato o russi che siano, di questa resistenza. I curdi la leggono sin dai tempi dell’assedio di Kobane nei termini della lotta antifascista e ci pare che lo facciano con ottime ragioni. (Thanking the United State compariva su Rojava Report nell’Ottobre 2014)
Cosa significa per la costituzione imperiale oggi la guerra? Se nel 2001 Bush ha fallito il suo colpo di Stato tuttavia la nostra profezia di una guerra globale e permanente è tristemente avverata. Assumendo un “fronte interno” in cui il nostro compito sia, ad esempio, fare dei quartieri luoghi integrati con il resto della metropoli attraverso un tessuto connettivo di lotte e solidarietà e non invece dei ghetti che covano fondamentalismi e passioni tristi… come possiamo agire, se non altro, un discorso, e possibilmente anche una pratica, sul fronte esterno? Come sabotare una macchina bellica in una guerra che non ha inizio né fine? Che non ha soldati né schieramenti definiti? Denunciare gli interessi di chi vende armi e sfrutta risorse debbono essere, crediamo, tematiche sempre al centro del nostro discorso pubblico eppure non basta. Come sicuramente non è sufficiente il tifo per l’esercito rosso (kurdo in questo caso) né la solidarietà per chi fugge. Tutte cose che facciamo (la nostra campagna principale al momento si chiama “Stop War Not People“) e che giocano un ruolo importantissimo, ma che andrebbero cucite assieme in una lettura del presente maggiormente alla nostra portata.
Per districarci, proponiamo qui di seguito la lettura di alcuni contributi.
“Dieci tesi su politica della paura, Isis e fascioleghismo” di Girolamo De Michele per euronomade
“Siamo in guerra” e “Allora, facciamo la guerra all’ISIS” di Aldo Giannulli
A proposito del ruolo dei kurdi e dell’alleanza con la coalizione a guida USA ci sembra molto importante riepilogare il ruolo del PKK in Siria e alcuni passaggi chiave. Nel periodo tra l’Agosto 2014 e il Novembre 2014, si capisce come il supporto Usa all’Ypg non sia stato frutto di diverse esigenze: in un primo momento contenere il PKK, in un secondo momento non perdere la faccia d fronte alla resistenza di Kobane che diventava notizia globale. Fino all’agosto 2014 è tutto riassunto molto bene da Giap in questo articolo: Isis, Pkk e Rojava in seguito si fa tutto più complesso e ravvicinato e consigliamo di seguire fonti kurde, soprattutto Rojava Report.
Per farsi un’idea di come i curdi siriani si pongono il problema del contraddittorio supporto Usa (al di là dei comunicati militari di ringraziamento del comando centrale della coalizione) si può ad esempio leggere questo articolo dal titolo esemplificativo, scritto durante l’assedio di Kobane: Is the Pyd collaborating with imperialism?
Esiste un retaggio coloniale e neo-coloniale che fa dell’Occidente una specie di Re mida che quando interviene può solo peggiorare le cose perché conferma la narrazione fondamentalista della guerra contro i crociati, apre la strada a nuovi saccheggi e si muove con un completo disprezzo delle vite umane africane o mediorientali che è completamente asimmetrico (e genera guerra asimmetria e cioè terrorismo).
Particolarmente significativo in questo senso l’intervento di Robert Fisk su Indipendent: Whoa there David Cameron! Hate and rethoric is not a recipe for peace. Significa questo lavarsi le mani e proporre di lasciare fare all’Isis? Noi pensiamo che questa decostruzione del discorso di guerra sia un prerequisito fondamentale anche per sostenere i kurdi (ad esempio), che non cessano di rivendicare la pace pur essendo in guerra da 30 anni.
L’analisi di Balibar, invece, propone la società civile Europea e Mediterranea come soggetto agente in quella che sembra essere paragonabile alla guerra dei trent’anni o alla guerra civile europea (come lui definisce la somma delle due guerre mondiali) come portata. Potete trovarla qui: “Un conflitto indefinito e asimmetrico”
Naomi Klein interviene affermando che un accordo sul clima è la migliore speranza per la pace: vi proponiamo qui l’articolo in inglese: “Why Climate deal is the best hope for peace“
Infine, suggeriamo i contributi di David Graeber e Noam Chomsky, che scrivono entrambi in particolare rispetto alla Turchia e al regime di Erdogan.
“Turkey could cut off Islamic State’s supply lines. So why doesn’t it?” di David Graeber
“Turkey continues to muzzle democracy’s watchdogs” di Noam Chomsky
per altri spunti e altre letture, ti consigliamo il nostro speciale “La guerra globale nel cuore di Parigi“.