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Come al solito mi prendo tempo per mettere ordine alle idee dopo eventi che sono suscettibili di cambiare profondamente lo svolgersi della vita quotidiana, il funzionamento della società e il modo in cui viene governata.

Molti sono i sentimenti che animano lo spirito collettivo e molti i pensieri, poco chiari, che si formano nella mia mente. Tra tutti però due sono prevalenti: insofferenza e rabbia. L’insofferenza per la natura umana e la rabbia per la natura del potere. Ma andiamo con ordine e partiamo dal titolo che ho scelto di dare a questa riflessione, ancora parziale e forse confusa a proposito di quello che è accaduto a Parigi venerdì 13 novembre. Comincio dalla rabbia per la natura del potere.

Hunger Games è il titolo di una serie cinematografica (chiamarli film forse è eccessivo) che si sviluppa attorno a poche idee semplici ed efficaci: l’ordine ha bisogno di paura per essere mantenuto, la natura umana è sadica e ipocrita al tempo stesso specie nei suoi moti collettivi, la vita e la morte sono valori relativi, da sempre. Le stesse idee semplici ed efficaci sono alla base del modo in cui nei paesi del cosiddetto occidente (occidente rispetto a cosa, poi, dato che la Terra è una sfera, devo ancora capirlo) hanno deciso, con ampio consenso sociale, di gestire le conseguenze della Guerra Infinita scatenata ormai 14 anni fa.

Da  14 anni i governi dei paesi europei e gli USA hanno deciso che era giunto il momento di modificare gli assetti politici del medio oriente, non più funzionali alle nuove esigenze di controllo delle risorse primarie quali le fonti energetiche e le vie di comunicazione che assicurano il funzionamento della logistica delle merci. Non mi dilungo su questo ma la premessa è importante. Trovo infatti insopportabile che si cerchino di trovare delle chiavi di lettura delle dinamiche di violenza sociale e militare osservando gli avvenimenti troppo da vicino: come osservare un bicchiere d’acqua e pretendere di capire il funzionamento delle maree. La prima cosa da tenere bene in considerazione dunque è questa: siamo in guerra da 14 anni. Questa guerra ha causato più o meno direttamente lo smantellamento delle organizzazioni statali di Afganistan, Iraq, Siria, Libia. Ha provocato centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati e rifugiati e distrutto fisicamente e psicologicamente due o tre generazioni di essere umani in quelle stesse regioni. Le conseguenze più sanguinose per l’Europa e gli USA sono state gli attentati di New York, Madrid, Londra, e quest’anno i due attacchi a Parigi. E qui la natura del potere ha mostrato il suo volto più insopportabile: il governo delle emozioni umane per proseguire e legittimare la guerra che stiamo conducendo dal 2001. Il meccanismo è simile e nel tempo è sempre più pervasivo e raffinato. Avviene un attentato, lo sgomento e l’incredulità per la violenza della morte è generale, i titoli si rincorrono, le biografie di vittime e carnefici si intrecciano con le analisi di sociologi e psicologi prezzolati che ne esaltano o condannano le qualità, il potere ne esce rafforzato in quanto si presenta come l’unico modo per garantire una nuova stagione di oblio e rimozione fino al prossimo attacco.

È qui che la natura umana e il potere si intrecciano chiedendosi aiuto reciproco, con un pessimo risultato. Le nostre società non sono segnate dalla guerra da ormai settant’anni. Pochi sono gli esseri umani ancora in vita che l’hanno vista e la maggior parte di loro sta finendo i propri giorni in qualche casa di riposo. Non abbiamo quindi la capacità di gestire le emozioni che tragedie come queste possono scatenare, siamo bambini terrorizzati che strabuzzano gli occhi e chiedono a tutti e a nessuno “perché?” “com’è stato possibile?” “perché non ci avete protetti?” “che colpa abbiamo noi?”. La risposta del potere in questi due giorni è stata rapida, efficace e debole al tempo stesso. La risposta rapida sta nella dichiarazione dello stato di emergenza su tutto il territorio francese, la chiusura delle scuole e degli edifici pubblici il giorno dopo, il divieto di tutte quelle attività che possano creare assembramenti: mercati all’aperto proibiti e manifestazioni vietate. La risposta efficace è nel richiamo all’unità nazionale e alla difesa comune della nostra superiorità morale e civile contro la barbarie, il tutto ovviamente mediato dal cordoglio spontaneo per le vittime, dallo sgomento e dallo smarrimento. La debolezza sta nel fatto che ancora una volta un paese europeo si scopre incapace di prevenire fatti sanguinari di questo tipo e di tutelare le persone che vivono sul suo territorio.

In questi due giorni abbiamo dunque assistito a una operazione radicale di biopolitica delle emozioni. Nello smarrimento collettivo il discorso dominante autoassolve le colpe che i governi occidentali hanno, lo fa così bene che l’intensificazione dei bombardamenti sulla Siria viene salutata come la giusta, necessaria, inevitabile risposta. Facebook, il più importante aggregatore di informazioni del pianeta, utilizza l’onda emozionale per promuovere l’identificazione dei suoi utenti con il simbolo per l’eccellenza di tutti i massacri coloniali che hanno macchiato il secolo scorso: una bandiera nazionale. La stessa bandiera che sta dietro i dittatori dell’Africa centrale, la guerra sporca per l’uranio in Mali e nel Sahel, i primi bombardamenti in Libia e i bombardamenti in Siria. Una massa di persone commosse utilizzata per associare la bandiera di uno stato guerrafondaio con la difesa dei valori della democrazia e della libertà. Poi il più il classico, ed efficace, degli strumenti: il minuto di silenzio. Questo minuto di silenzio in cui ogni individuo è “caldamente” invitato a sospendere le sue attività quotidiane, e quindi la produzione, risponde a due esigenze contrapposte. Da un lato crea uno spazio psicologico minimo per ricordare le vittime, e sono tante, per condividere il sentimento di paura, che è profondo e diffuso in città, per esorcizzare la consapevolezza che si poteva essere tra le vittime, con estrema facilità. Dall’altro lato questa pausa dalla produzione segna una differenza, la più odiosa e insopportabile. I nostri concittadini, noi, il nostro modello di vita, ha subito un attacco e una perdita. Dobbiamo ricordare chi siamo e ricordare che abbiamo dei nemici, noi siamo innocenti e siamo senza parole, non comprendiamo, quindi stiamo in silenzio. Non discutiamo del perché, di cosa può avere scatenato tanta violenza contro di noi, quindi ci guardiamo negli occhi, piangiamo e ci abbracciamo. Noi facciamo un minuto di silenzio, altrove la loro guerra continua. Noi piangiamo i nostri morti, in silenzio. Loro il nostro silenzio lo usano per lanciare altre bombe, vendere altre armi, finanziare altre stragi.

Più forti sono le emozioni, più efficace può essere la capacità del potere di piegarle ai suoi interessi. E questa volta l’ondata emotiva è una marea estesa e profonda. Lo avrete capito ormai ma è bene non scordarlo: hanno massacrato giovani che erano a un concerto, nei caffè, nei ristoranti, a vedere una partita di calcio che celebrava una riconciliazione tra due nemici storici (Francia e Germania). Hanno segnato per sempre una generazione, chiunque poteva essere lì, quello è il quartiere della movida di Parigi, potrebbe accadere ancora, nessuno è davvero più al sicuro.

Hanno fatto quello che i nostri governi fanno da anni. Sono ottimi allievi. Bravò.
Alessandro Maggioni

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