La Palestina è tornata ad essere sulle pagine dei giornali, dopo le aberranti dichiarazioni di Nethanyahu per cui l’Olocausto sarebbe in fin dei conti da imputare ai palestinesi: la ciliegina sulla torta dopo mesi in cui la violenza israeliana nei territori si è moltiplicata, con le provocazioni incessanti sulla Spianata delle Moschee, chiusa ai palestinesi ma diventata passerella per coloni e esercito; con gli attacchi dei coloni ai villaggi palestinesi, come quello che quest’estate ha bruciato vivo il piccolo Ali, 18 mesi, e ucciso per le ustioni entrambi i suoi genitori; con i raid dell’esercito israeliano su Gaza, nelle città e nei campi profughi, come ad Aida, Betlemme, dove un cecchino israeliano a ucciso “per caso” un bambino palestinese mentre tornava a casa da scuola; con la demolizione delle case di chiunque venga considerato un pericolo da Israele, in una punizione collettiva completamente arbitraria che colpisce interi nuclei famigliari…
Violenze che si sommano a quelle quotidiane di un’occupazione che dura ormai da quasi settant’anni e che attacca ogni giorno, con una guerra a bassa intensità ma quotidiana, espropriando terre, distruggendo case e falde acquifere, per costruire gli insediamenti illegali della “Grande Israele”, per fare spazio al muro di segregazione che serve solo ad annettere nuovi territori, alla faccia del diritto internazionale.
In questi giorni la Palestina torna sulle prime pagine dei giornali, per le rivolte e le manifestazioni che stanno scuotendo i territori, per le giovani ed i giovani che tornano nelle piazze, contro i posti di blocco, contro il muro. L’occupazione rimane sullo sfondo, con una certa riluttanza dei comunicatori di mestiere a ricordare al mondo che, quando ogni diritto ti viene negato, quando generazioni intere sono costrette a vivere in uno stato di apartheid che nega loro la stessa dignità di esseri umani, allora ribellarsi non è solo giusto, ma necessario, l’unica risposta possibile, l’unica strategia di sopravvivenza.
Non ci importa di chiamarla intifada, termine che poi in arabo altro non vuol dire se non ribellione: sappiamo che, comunque la chiameranno, saremo al fianco di quelle ragazze e di quei ragazzi, di quegli uomini e di quelle donne che raccolgono pietre ai margini delle strade contro uno degli eserciti più potenti e meglio armati del mondo, che contro quell’esercito mettono in gioco i loro corpi, il loro futuro.
Ancora una volta saremo al fianco di chi lotta per l’autodeterminazione propria e del proprio popolo, per il diritto a scegliere cosa fare del proprio futuro, per muoversi liberi sulla propria terra, al fianco di quei corpi che ogni giorno tentano di forzare i checkpoint, di abbattere il muro e l’apartheid che rappresenta, affermando che l’unica cosa da fermare sono la guerra e l’occupazione, di sicuro non le persone.
Stop War Not People
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