- Introduzione: 10 ottobre, Ankara.
- Ascolta gli interventi della comunità curda milanese, del laboratorio Lapsus di storia contemporanea e il racconto della carovana Rojava Resiste.
- Cos’è il PKK?
- Cos’è l’AKP, chi è Erdogan e cosa sono i servizi segreti Turchi
- Le prossime elezioni in Turchia
- Cos’è l’Isis? (o almeno proviamo a capirlo…)
- I precedenti della strage di Ankara
- Do you remember…strategia della tensione?
- Do you remember…guerra sucia?
- Link Utili
- Scarica il materiale cartaceo
Sabato 10, stazione di Ankara.
Migliaia di persone turche e curde si iniziano a raggruppare per dare vita ad una grossa manifestazione contro il governo Erdogan e contro le sue politiche di guerra e repressione. Siamo a poche settimane dalle elezioni e nel pieno di una vera e propria guerra mossa contro il popolo curdo e le sue organizzazioni.
Il nemico ufficiale di tutto l’occidente è ed è sempre stato l’Isis, il sedicente Stato Islamico, ma nella lista delle organizzazioni considerate terroristiche ci sono invece quelle curde come il PKK.
Se guardiamo ai fatti degli ultimi mesi, gli unici a combattere le truppe armate fino ai denti del Califfato sono state le organizzazioni resistenti del PKK, del Rojava, di Kobane e, guarda caso, questi ultimi sono stati anche i bersagli principali delle bombe dell’esercito turco.
Sabato 10, stazione di Ankara.
Un’esplosione in mezzo alla folla uccide 121 persone, ferendone altre centinaia.
Non è la prima volta che accade un fatto simile nelle ultime settimane: a Surûc 30 giovani attivisti sono stati massacrati in un centro culturale.
SI delinea così una strategia che assomiglia a qualcosa che in Italia conosciamo bene, una strategia di tensione e paura che come a piazza Fontana e a piazza della Loggia mira a inasprire controllo e regime, a svuotare le piazze e le strade, a trovare capri espiatori, in una vera e propria guerra sporca mossa da Stati stragisti contro le popolazioni.
A poche ore dalla strage di Ankara, l’esercito turco ha bombardato il pkk che combatte ogni giorno l’Isis in diverse zone del Kurdistan. Ah, ovviamente in contemporanea i servizi turchi hanno annunciato di sospettare l’Isis per la carneficina al corteo…non fa una piega no?
A chi serve il massacro di Ankara? E quello di Surûc? A chi serve il Califfato che, come ci ha ricordato Gino Strada, non possiede fabbriche di armi, ma si rifornisce dalle democrazie europee? Di che fabbricazione erano le bombe di Ankara? Da quale illuminato paese neoliberista arrivavano?
Sarà che l’unico esperimento di democrazia è quello del confederalismo, sarà che Kobane rifiuta ogni coinvolgimento delle multinazionali sfruttatrici nella sua ricostruzione, sarà che il Rojava combatte l’oppressione del capitalismo in tutte le sue facce…sarà..
ASCOLTA L’AUDIO DELL’INCONTRO IN UNIVERSITA’ STATALE con i portavoce della comunità curda Milanese, il laboratorio Lapsus di storia contemporanea (Unimi) e uno dei partecipanti della carovana Rojava Resiste.
E’ il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (in curdo Partîya Karkerén Kurdîstan), presente con sigle differenti soprattutto nel sud-est della Turchia e in diverse zone di Iraq, Siria e Iran.
Nel 1973 il movimento di stampo marxista-leninista e indipendentista iniziò le proprie attività a seguito del colpo di stato che in Turchia aveva inasprito notevolmente le condizioni di vita curde. La nascita ufficiale del PKK risale al 27 novembre 1978.
Dopo il golpe militare turco del 1980, tutte le forze di opposizione furono ridotte al silenzio da una feroce repressione. Terminata la dittatura militare, nel 1984 la Turchia ritornò ad un governo solo formalmente democratico. A questo punto il PKK scelse la via della resistenza armata clandestina.
Nel tentativo di portare nell’agenda dell’Unione europea la questione kurda, il leader del pkk Abdullah Ocalan sbarcò in Italia il 12 novembre 1998, dove chiese asilo politico, che però arrivò formalmente solo due mesi dopo che su pressioni della Turchia il governo D’Alema si era sbarazzato del problema “accompagnando” il leader curdo in Kenya, dove venne arrestato e ricondotto ad Ankara.
Dopo il 2000 il PKK cominciò a problematizzare la pratica della lotta armata, e nel 2005, su impulso di Ocalan, venne teorizzato un nuovo concetto politico ispirato al municipalismo libertario di Murray Bookchin: il confederalismo democratico.
Questa nuova corrente ideologica è fondata sull’ecologismo, su una svolta autonomista e sullo sviluppo di una confederazione territoriale che permetta un autogoverno volto a far partecipare direttamente tutta la popolazione alle decisioni politiche, partendo dai consigli di villaggio fino ad arrivare ai consigli di regione.
I pilastri sono autonomia, democrazia, femminismo ed ecologismo., il primo esperimento concreto è quello del Rojava e di Kobane, dove l’esercito curdo sta affrotando da mesi il fuoco incrociato di Isis e esercito Turco..
Il PKK è attualmente considerata un’organizzazione terroristica da Turchia, USA, NATO, Unione europea (dal 2001, su richiesta degli USA) e Iran; in Europa ci sono state numerose proposte di rimuoverlo da tale lista e considerarlo una legittima forza di resistenza. Tuttavia, India, Cina, Russia, Svizzera ed Egitto non lo considerano tale.
Le formazioni combattenti
HPG (maschile) e YJA (femminile) sono i nomi delle formazioni combattenti nel kurdistan turco.
YPG (maschile) e YPJ (femminile) sono quelle del kurdistan siriano
DPK e l’UPK sono invece i nomi dei gruppi di curdi peshmerga nel kurdistan iracheno
AKP, ERDOGAN E I SERVIZI SEGRETI TURCHI
Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (in turco: Adalet ve Kalkınma Partisi – AKP) è un partito politico conservatore turco.
L’AKP si è sviluppato dalla tradizione dell’Islam politico ed è tutt’ora il principale partito turco, con 258 membri del Parlamento controlla la maggioranza sin dal 2002. Il suo presidente, Ahmet Davutoğlu, è primo ministro del paese, mentre il suo fondatore ed ex leader Recep Tayyip Erdoğan ne è presidente.
Fondato nel 2001 da membri di vari partiti conservatori, l’AKP ha vinto nelle ultime quattro tornate elettorali del 2002, 2007, 2011 e 2015, con il 34.3%, 46.6%, 49.8% e 40.9% dei voti rispettivamente, mantenendo così la maggioranza dei seggi per 13 anni, perdendola solo alle elezioni del giugno 2015.
Poco dopo la sua formazione, l’AKP si presentava come un partito filo-occidentale e filo-statunitense, facendo campagna per una economia liberale di mercato e per l’adesione della Turchia all’Unione europea. Il partito è stato descritto come una “ampia coalizione di destra di islamisti, riformisti islamici, conservatori, nazionalisti, centro-destra, e gruppi pro-business”.
Nei primi anni di governo Erdogan e il suo partito si sono accreditati filoeuropeisti per guadagnare credibilità politica a Bruxelles. Ma dopo la promozione nel 2005 della Turchia a candidato dell’Ue, il leader dell’AKP si è progressivamente smarcato, percorrendo un secondo binario “neo ottomano”, rivelatosi alla lunga vincente. «Zero problemi con i vicini di casa», è stato il mantra del suo braccio destro e ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, che ha intensificato le relazioni diplomatiche e commerciali con Iran, Siria e altri Paesi islamici.
Nel complesso, si può quindi ravvisare nelle posizioni dell’AKP uno spostamento da un iniziale orientamento riformista verso posizioni che, almeno rispetto ad alcuni punti di vista, si avvicinano a quelle dell’islamismo “tradizionale” turco.
I media hanno particolarmente enfatizzato il fatto che il presidente – che teoricamente non dovrebbe partecipare alla campagna a causa del suo ruolo istituzionale super partes – abbia tenuto in mano il Corano durante un comizio. Questa enfasi sulla religione è mirata in particolare contro il partito curdo Hdp – che ha proposto un’innovativa piattaforma elettorale laica e orientata a sinistra – il cui accesso in parlamento sarebbe un forte ostacolo per le ambizioni di Erdoğan di rafforzare il potere presidenziale e portare avanti un’agenda orientata in senso religioso.
La sua carriera politica inizia nei movimenti e nei partiti di stampo islamista, e nel 1994 diventa sindaco di Istanbul. Giudicato colpevole di incitamento all’odio religioso per aver declamato pubblicamente i versi del poeta Ziya Gökalp: “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati… “, è stato imprigionato nel 1998. Uscito dal carcere, ha fondato il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), a cui ha impresso un carattere più moderato rispetto ai precedenti partiti islamici turchi.
Nel 2002 inizia il successo elettorale del “suo” Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp). In seguito a tale vittoria elettorale, replicata nelle elezioni amministrative del 2004, Erdoğan, escluso dal corpo elettorale fino alla fine del 2002 per via della precedente condanna, ha dapprima appoggiato l’elezione a primo ministro del suo compagno di partito Abdullah Gül, dopodiché – restituito dei suoi pieni diritti elettorali attivi e passivi, anche grazie a un emendamento costituzionale ha assunto egli stesso la carica di Primo ministro del governo della Repubblica Turca, carica confermata da successive elezioni.
Il ritorno alla tradizione-musulmana è stato lo strumento usato da Erdogan per cementare il sentimento di identità nazionale e per rafforzare, all’esterno, la percezione di uno Stato forte, democratico e islamico, seppur modernizzato secondo le regole di mercato. L’attuale presidente turco ha costruito il suo potere attraverso un atteggiamento da leader arrogante che non lascia spazio ad altre forze politiche.
La svolta “neo-ottomana” è emersa sempre più chiara dopo l’esplosione delle rivolte nei Paesi arabi, verso i quali il governo turco si è posto come mediatore tra i dittatori in bilico e i movimenti per il rinnovamento. Ma, in realtà, è il risultato di una rete economica e commerciale intessuta per anni con i contestati regimi islamici.
Dal 2013, le proteste di piazza Taksim contro l’islamizzazione e poi gli scandali sulla corruzione e sull’arricchimento della famiglia di Erdogan hanno arrestato la corsa dell’Akp alle modifiche costituzionali che, con il placet del parlamento allargato alle minoranze curde e armene, avrebbero dato al capo dello Stato i poteri di una Repubblica presidenziale.
Irremovibile nel suo obiettivo di presidente-sultano, il tre volte premier non più rieleggibile è tuttavia riuscito a introdurre l’elezione a suffragio universale del presidente e a far passare leggi liberticide, per le quali era sufficiente la maggioranza semplice, come quella per il controllo dei media e per l’estensione dei poteri ai servizi segreti del Mit, guidati dal fedelissimo di Erdogan, Hakan Fidan.
Sotto l’egida del Presidente Recep Tayyip Erdoğan, l’agenzia nazionale turca di intelligence, conosciuta con l’acronimo MIT, ha subito una radicale trasformazione. In linea con l’espansione degli interessi geopolitici turchi e con il moltiplicarsi delle crisi internazionali che hanno coinvolto il Paese, negli ultimi anni il MIT si è rivelata l’istituzione di riferimento nel facilitare la realizzazione dei progetti diplomatici dell’AKP, il partito che guida il Paese dal 2002. Recentemente, l’agenzia è stata sostanzialmente rafforzata sotto il profilo operativo, organizzativo, ed in termini di risorse.
Nel 2010, l’allora Primo Ministro Erdoğan volle personalmente a capo del MIT Hakan Fidan, ex direttore (2004-2007) della TIKA, l’agenzia turca per la cooperazione e lo sviluppo. Da allora Fidan si è progressivamente affermato come uomo di fiducia di Erdoğan, al punto che questi lo ha più volte pubblicamente descritto come il custode dei segreti politici, tanto della nazione che del Presidente stesso.
I casi che hanno visto protagonista il MIT negli ultimi anni sono numerosi e da aprile del 2014, un nuovo pacchetto di riforme ha espanso i poteri dell’agenzia, rafforzandone la capacità di condurre operazioni oltre confine ed aumentandone le prerogative decisionali ed operative sul territorio turco. L’AKP, unico promotore della riforma, sostiene che l’espansione dei poteri del MIT rafforzi l’agenzia, portandola ai livelli della CIA e dell’MI6 (i servizi britannici); l’opposizione sostiene invece che la riforma sia stata un ulteriore passo verso l’accentramento di potere nelle mani di Erdoğan.
Nel gennaio del 2014, la Gendarmeria e la magistratura turca fermarono un camion diretto verso la Siria, sulla base del sospetto che stesse trasportando armi attraverso il confine. Il camion era ufficialmente sotto scorta e protezione del MIT, ed i membri dell’agenzia che seguivano il convoglio impedirono la perquisizione sostenendo che la merce trasportata fosse sottoposta a segreto di Stato. Lo stesso incidente si ripetè qualche settimana più tardi, quando altri tre camion scortati dal MIT tentarono di passare il confine. La vicenda ha creato significative tensioni politiche: ai media turchi è stato proibito di riportare notizie sull’incidente, e Erdoğan ha sempre difeso l’operato del MIT sostenendo che i camion non potevano essere fermati nè perquisiti.
Nel gennaio del 2015, tuttavia, su Twitter sono comparse le copie di un documento ufficiale dal Comando Generale della Gendarmeria nel quale si sostiene che i camion vennero effettivamente perquisiti dalla Gendarmeria, e che stessero trasportando munizioni, razzi ed esplosivi destinati, sempre secondo il documento, a gruppi affiliati ad Al-Qaeda operanti in Siria. Un altro episodio ha portato il MIT nuovamente sotto i riflettori. Nel giugno del 2014, un gruppo di militanti di ISIS ha occupato il consolato turco a Mosul, nel nord dell’Iraq, prendendo in ostaggio 49 cittadini turchi. La crisi si è conclusa nel settembre 2014, con il rilascio di tutti gli ostaggi: Erdoğan ha sempre negato il pagamento di un riscatto, ma ha ammesso che c’è stata una trattativa politica e diplomatica con l’ISIS, e che il MIT è stata l’agenzia che ha gestito la questione. I dubbi sul ruolo del MIT nella vicenda e sulla natura della trattativa con l’ISIS non sono mai stati chiariti, dato che, fin dall’inizio della crisi, la giustizia turca ha anche stavolta imposto il divieto di divulgare notizie sugli eventi di Mosul; un divieto che rimane ancora in vigore nonostante la risoluzione positiva della vicenda. Il crescente ruolo del MIT ha anche un impatto significativo su questioni di politica interna.
È ormai da tempo che opposizione e governo si scontrano sul presunto ruolo politico che l’organizzazione starebbe progressivamente assumendo. Nel novembre del 2014, Kemal Kilicdaroglu, leader del CHP, ha puntato l’indice contro il Presidente Erdoğan, accusandolo di complottare con i servizi di intelligence per creare tensioni all’interno dell’opposizione in vista delle elezioni previste per il giugno del 2015, ed è arrivato a paragonare il MIT alla Gestapo della Germania Nazista.
Il Primo Ministro Ahmet Davutoğlu ha naturalmente respinto le accuse, sottolineando l’integrità dell’istituzione e criticando il CHP per avere tentato di trascinare il MIT in una polemica puramente politica. Le recenti dimissioni di Hakan Fidan dalla direzione del MIT sembrano suggerire che starebbe per candidarsi con l’AKP come probabile erede politico di Erdoğan, ciò confermerebbe i sospetti di un comune progetto politico.
Erdoğan è in sostanza riuscito a trasformare il MIT in un’organizzazione saldamente allineata con la sua visione politica, ma il sostegno all’agenzia e alle sue recenti operazioni hanno comportato la necessità di un diretto coinvolgimento politico con l’AKP; e questo ha intaccato pesantemente la trasparenza e la credibilità dell’agenzia come organo dello Stato.
D’altra parte, ciò riflette la più ampia gestione politica di Erdoğan, fortemente sbilanciata sull’accentramento di potere. Per Erdoğan, l’investimento politico fatto su Hakan Fidan e sul MIT ha portato risultati visibilmente positivi: il leader dell’AKP è, probabilmente, riuscito ad individuare il suo delfino, e l’organizzazione è divenuta il factotum operativo del governo.
LE PROSSIME ELEZIONI IN TURCHIA
Erdoğan sperava che a giugno l’Akp avrebbe ottenuto non solo la quarta vittoria elettorale consecutiva, ma anche una maggioranza dei due terzi dei seggi. Così l’anno scorso ha lasciato la carica di primo ministro che occupava da dieci anni e si è fatto eleggere presidente. Oggi quello del presidente è un ruolo cerimoniale, ma con una maggioranza dei due terzi avrebbe potuto cambiare la costituzione e dotarsi di poteri assoluti.
Ma il suo partito non ha ottenuto la maggioranza di due terzi alle elezioni di giugno. Anzi non ha ottenuto neanche una maggioranza, bensì solo 258 seggi sui 550. Il principale motivo è stato l’ingresso in parlamento dell’Hdp, il quale chiede che la popolazione curda della Turchia goda di pari diritti in tutti i campi, compresa la lingua.
La maggior parte degli elettori dell’Hdp erano curdi, ma le sue posizioni laiche e progressiste hanno convinto anche molte persone di origine non curda a votarlo.
Ha ottenuto il 13 per cento dei voti, superando la soglia dello sbarramento del 10 per cento necessario a ogni partito per essere eletto in parlamento. L’arrivo dell’Hdp ha cambiato gli equilibri aritmetici in parlamento, privando l’Akp della sua maggioranza. Erdoğan avrebbe potuto optare per una coalizione, ma era prigioniero della sua carica presidenziale senza potere, privato della possibilità di cambiare la costituzione e senza poter fare personalmente parte di un simile governo di coalizione.
Per cui ha deciso di scommettere su nuove elezioni per poter attingere alla fonte di voti degli ultranazionalisti che si erano allontanati quando erano state avviate trattative di pace con il Pkk.
I negoziati erano stati aperti quattro anni fa, anche se il cessate il fuoco ufficiale è stato dichiarato solo nel 2013. Erdoğan aveva bisogno di ricominciare la guerra contro il Pkk. Ha risolto il problema dicendo che avrebbe attaccato lo Stato islamico e altri gruppi “terroristi”. Ma da quando sono cominciati, ad agosto, gli attacchi aerei della Turchia hanno colpito venti obiettivi del Pkk per ogni attacco contro lo Stato islamico. Non è neppure chiaro se la Turchia abbia davvero chiuso le sue frontiere ai volontari pronti ad aggregarsi al gruppo Stato islamico.
Con lo spaventoso attentato alla marcia pacifista di Ankara che chiedeva la fine del conflitto con i curdi del Pkk, la Turchia paga tragicamente il prezzo della destabilizzazione dopo l’attentato di Suruc del luglio scorso che fece 30 morti. A venti giorni dalle elezioni anticipate del primo novembre, la cui regolarità è pregiudicata dallo stato di emergenza in molte zone dell’Anatolia del Sud Est, la Turchia è entrata in un fase di pericolosa incertezza.
Quanto sta accadendo è il risultato della ripresa del conflitto nelle zone curde, ricominciato dopo la rottura della tregua con il Pkk, e soprattutto delle politiche di un governo che in questi anni con il passaggio di migliaia di jihadisti ai confini con la Siria, con l’obiettivo di abbattere il regime di Assad, ha alimentato una destabilizzazione regionale ormai fuori controllo. All’interno si era già misurata la potenzialità distruttiva di queste politiche con l’attentato di Suruc e il moltiplicarsi della presenza dei radicali islamici, mentre in Siria l’afflusso della guerriglia ha alimentato il reclutamento del Califfato.
Dopo avere perso la maggioranza assoluta alle elezioni del 7 giugno scorso con l’ingresso in Parlamento del partito Hdp, il governo dell’Akp e il presidente Tayyp Erdogan hanno costituito un fragile governo di coalizione con i curdi che però ha hanno abbandonato l’esecutivo quando si è intensificato il conflitto con il Pkk.
Erdogan e il premier Ahmet Davutoglu si sono quindi appoggiati ai nazionalisti, avversari dei curdi, e il clima politico interno è diventato sempre più esasperato con ripetuti attacchi alle sedi del Pkk ma anche a media e giornalisti turchi che riportavano il progressivo aggravarsi della situazione.
Sul fronte esterno il problema di Erdogan è il fallimento della guerra ad Assad, su quello interno il successo elettorale dei curdi, al punto che ha dato mano libera alle forze armate: il risultato sono stati centinaia di morti tra i curdi e dozzine tra i militari che hanno adottato metodi inaccettabili per una repressione che ha colpito non solo i combattenti ma soprattutto i civili.
I filmati mostrano Cizre letteralmente rasa al suolo come una città siriana e la regolarità delle elezioni del primo novembre è già molto dubbia. Non potendo vincere la guerra ad Assad, Erdogan ha tentato di eliminare i curdi e si è alleato con le frange più nazionaliste dei Lupi Grigi tra cui il figlio di Alpaslan Turkes. Erdogan, come ha dichiarato a Bruxelles durante la sua recente visita, qualifica ormai tutti i curdi come terroristi, siriani e Hdp compreso, per i legami con il Pkk, sperando che la deriva ipernazionalista lo salvi dalla sconfitta elettorale.
COS’E’ ISIS? (O ALMENO PROVIAMO A CAPIRLO…)
Isis è l’abbreviazione di Islamic State of Iraq and Syria che in arabo è traducibile con al-Dawlah al-Islāmīyah. Di recente la sigla è stata ridotta in Is (Islamic State), per questo motivo si parla solo di Stato islamico. I nomi più noti dal 2001 ad oggi sono quelli di Abū Musʿab al-Zarqāwī, Abu Abdullah al-Rashid al-Baghdadi, e Abu Ayyub al Masri, Abu Bakr al Baghdadi (che ha fatto crescere l’Isis dal 2010 fino all’autoproclamazione del Califfato del 29 giugno, secondo cui lui ha assunto il nome di Califfo Ibrahim). Le biografie di questi personaggi sono tutte molto incerte e passano per intricate e lacunose documentazioni di diversi stati e differenti servizi segreti.
Le linee di rifornimento dell’ISIS:
Ci dicono che l’attuale conflitto che infiamma il Medio Oriente, in particolare l’Iraq e la Siria, dove il cosiddetto “Stato Islamico” (ISIS) è attivo combattendo e sconfiggendo contemporaneamente gli eserciti di Siria, Libano, Iraq e Iran, si regge sul supporto logistico derivante dal mercato nero del petrolio e dal ricavato dei rapimenti a scopo di riscatto.
Le capacità offensive dell’ISIS sono quelle di uno Stato nazionale vero e proprio. Controlla vaste entità di territorio a cavallo fra Siria ed Iraq ed è capace non solo di difendere ed espandere militarmente questo territorio, ma possiede le risorse per occuparlo, comprese quelle per amministrare la popolazione assoggettata al suo interno.
Gli analisti militari, specialmente i membri anziani delle forze armate occidentali, e anche i giornalisti occidentali, che ricordano i convogli di autocarri necessari all’invasione dell’Iraq nel 1990 e poi di nuovo nel 2003, devono sicuramente domandarsi dove siano oggi gli autocarri dell’ISIS. Dopo tutto, se le risorse per mantenere le capacità offensive mostrate dall’ISIS fossero tutte disponibili all’interno del territorio siriano ed iracheno, allora le forze siriane ed irachene dovrebbero sicuramente possedere una capacità offensiva uguale o maggiore (dell’ISIS), cosa che semplicemente non hanno.
Se le linee di rifornimento dell’ISIS fossero unicamente confinate all’interno del territorio siriano ed iracheno, allora di sicuro, sia le forze siriane che quelle irachene utilizzerebbero il loro unico vantaggio, l’arma aerea, per isolare i combattenti di prima linea dell’ISIS dalla fonte dei loro rifornimenti. Questo però non succede, e per una buona ragione.
Mappe recenti del territorio controllato dall’ISIS mostrano evidenti linee di rifornimento che arrivano dalla Giordania e dalla Turchia. Se la Siria e i suoi alleati riuscissero a tagliare queste linee logistiche ci si potrebbe chiedere quanto potrebbe durare questa inspiegabile sequenza di successi dell’ISIS.
Le linee di rifornimento dell’ISIS corrono proprio dove l’aviazione siriana ed irachena non può intervenire. A nord dentro la Turchia, membro della NATO, a sud-est dentro la Giordania e l’Arabia Saudita, alleati degli americani. Oltre questi confini si estende una rete logistica che si espande fino ad includere sia l’Europa dell’est che il nord Africa. I terroristi e gli armamenti rimasti in Libia dopo l’intervento della NATO nel 2011 sono stati inviati di corsa in Turchia e da qui in Siria, il tutto coordinato da rappresentanti del Dipartimento di Stato Americano e dalle agenzie di intelligence a Bengasi, covo di terroristi da decenni.
Il “London Telegraph” in un articolo del 2013 intitolato “Unità della CIA dedite al contrabbando delle armi a Bengasi durante l’attacco all’ambasciata”, riporta che:
(la CNN) ha asserito che una squadra della CIA era al lavoro in un edificio di fianco al consolato per rifornire i ribelli siriani di missili provenienti dai depositi libici.
Le armi sono arrivate anche dall’Europa dell’Est, con il New York Times, che in un suo articolo del 2013, intitolato:”Il ponte aereo per le armi ai ribelli siriani si intensifica con l’aiuto della CIA”, scrive:
Da uffici in località segrete, rappresentanti dei Servizi Segreti americani hanno aiutato i governanti arabi ad acquistare armi, incluso un grosso stock dalla Croazia, ed hanno accuratamente valutato i vari comandanti dei ribelli e i rispettivi gruppi di appartenenza per determinare chi dovesse ricevere le armi man mano che arrivavano, questo secondo rappresentanti americani che lo hanno riferito in condizioni di anonimato.
Mentre le fonti giornalistiche occidentali fanno riferimento all’ISIS ed alle altre bande che operano con il simbolo di Al Qaeda, chiamandoli “ribelli” o “moderati”, è chiaro che, se tutti quei miliardi di dollari in armi andassero veramente ai “moderati”, sarebbero loro, e non l’ISIS a dominare il campo di battaglia.
Recenti rivelazioni hanno messo in luce che già nel 2012, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti non solo aveva anticipato la creazione di un “Principato Salafita” che occupasse parte della della Siria e dell’Iraq, esattamente dove ora si trova l’ISIS, ma gli aveva dato un entusiamante benvenuto e un concreto contributo alla sua formazione.
Per quanto si estendono le linee di rifornimento dell’ISIS?
Per quanto molti in Occidente ci mettano tanta buona volontà a fingersi ignoranti su come faccia l’ISIS a procurarsi i rifornimenti atti a mantenere le sue impressionanti capacità offensive, alcuni giornalisti hanno viaggiato nella regione e hanno videoregistrato e fatto articoli sugli infiniti convogli di autocarri che riforniscono l’esercito dei terroristi.
Questi camion, stavano per caso viaggiando avanti e indietro dai luoghi di produzione nel territorio conquistato dall’ISIS, ben all’interno di Siria ed Iraq? No. Venivano dall’interno della Turchia, passavano il confine siriano con assoluta impunità e se ne andavano per la loro strada sotto la tacita protezione delle vicine forze militari turche. Tutti i tentativi della Siria di attaccare questi convogli e i terroristi che entravano nel Paese con loro, si sono sempre scontrati con le difese antiaeree turche.
La rete televisiva internazionale tedesca Deutsche Welle (DW), ha trasmesso quello che è stato il primo videoservizio di un grosso organo di informazione occidentale inteso a documentare come le fonti di sostentamenro dell’ISIS non siano il “mercato nero del petrolio” o i “rapimenti a scopo di riscatto”, ma i rifornimenti del valore di miloni di dollari trasportati quotidianamente all’interno della Siria da centinaia di autocarri provenienti dai confini della Turchia, Stato membro della NATO. La rete televisiva internazionale DW ha fatto un servizio sui convogli composti da centinaia di autocarri che quotidianamente entrano in Siria dalla parte (e con la complicità) della Turchia, diretti alle basi dell’ISIS, chiarendo una volta per tutte l’origine delle capacità belliche dell’esercito terrorista. Secondo DW gli autocarri provenivano da località ben all’interno della Turchia, molto probabilmente porti e basi aeree della NATO.
Il servizio intitolato “Le vie di rifornimento dell’ISIS attraverso la Turchia” conferma quanto già detto da analisti geopolitici almeno fin dall’inizio del 2011, che l’ISIS si basa su una immensa sponsorizzazione statale multi nazionale, che include, naturalmente, la stessa Turchia.
Guardando le mappe del territorio conquistato dall’ISIS e leggendo i resoconti delle sue manovre offensive attraverso la regione ed anche oltre, ci si immagina che per mantenere questo livello di capacità bellica siano necessari i rifornimenti di centinaia di autocarri al giorno. Si possono immaginare questi convogli che entrano in Iraq dalla Giordania e dall’Arabia Saudita. Altri convogli è probabile che entrino in Siria dalla Giordania.
Considerando la realtà della logistica e la sua costante importanza in tutte le campagne militari della storia dell’umanità, non esiste nessun’altra spiegazione plausibile della capacità dell’ISIS di portare la guerra all’interno della Siria e dell’Iraq, se non attraverso massicce risorse provenienti dall’estero.
Se un esercito marcia con il suo stomaco e gli stomaci dell’ISIS sono pieni di rifornimenti dalla NATO e degli stati del Golfo Persico, allora l’ISIS continuerà a marciare a lungo e con successo. Il segreto per spezzare la schiena all’ISIS sta nello spezzare le sue linee di rifornimento. Per fare ciò, ed è per questo che il conflitto si trascina così da tanto tempo, Siria, Iraq, Iran e gli altri dovrebbero per prima cosa assicurarsi il controllo dei confini e costringere l’ISIS a combattere all’interno dei territori di Turchia, Giordania e Arabia Saudita, uno scenario difficile da realizzare in quanto nazioni come la Turchia hanno creato di fatto zone tampone all’interno
della Siria, zone che non è possibile eliminare senza un intervento militare diretto contro la Turchia stessa.Con l’Iran che si unisce alla lotta, con un ipotetico dispiegamento di migliaia di truppe per sostenere le operazioni militari siriane, i basilari principi di deterrenza potrebbero impedire alla Turchia di rafforzare le sue zone tampone.
In pratica, quello che succede è che la NATO tiene letteralmente in ostaggio tutta l’area tramite la prospettiva di una catastrofica guerra regionale e lo sforzo di difendere e perpetuare il carnaio fatto dall’ISIS in Siria, il tutto con la copertura di una immensa rete logistica che fuoriesce dal territorio stesso della NATO.
A due giorni dalla strage di Ankara si moltiplicano le testimonianze secondo le quali la polizia è apparsa all’improvviso, subito dopo l’esplosione, ed ha cominciato a sparare sulle persone ferite e sulla folla. Al punto che c’è chi dice che la polizia stessa ha provocato più vittime della stessa esplosione, e non solo perché ha fatto ritardare l’intervento delle ambulanze. Non pago del massacro di Ankara, lo Stato turco continua il genocidio: ad Amed ha ucciso una bimba di 9 anni, Helin Şen; ad Adana ha sparato alla testa di un bimbetto di 3 anni e mezzo, Tevriz Dora, mentre, in braccio alla madre, tornava con la famiglia dalla manifestazione per la strage di Ankara. Continuano, inoltre, i bombardamenti dei cimiteri dei guerriglieri e delle guerrigliere e sulle zone della guerriglia, malgrado il PKK abbia dichiarato un cessate il fuoco unilaterale.
10 ottobre, strage di Ankara: 128 morti, 516 feriti
Si tratta del terzo massacro di massa dall’inizio del processo elettorale.
Esso esprime la strategia dell’AKP per restare al potere, ma non solo: è anche un feroce attacco all’autogoverno che, dal Rojava, sta prendendo piede nel Kurdistan del Nord.
Il bilancio del doppio attentato suicida compiuto il 10 ottobre contro la manifestazione per la pace ad Ankara è salito, secondo il filocurdo Partito democratico dei popoli (Hdp), a 128 vittime. La polizia turca non era presente per garantire la sicurezza (non lo è mai agli eventi dell’“opposizione”), ma è arrivata subito dopo per sparare gas lacrimogeni sui sopravvissuti.
Chi sono i responsabili degli attentati? Il primo ministro Ahmet Davutoğlu ha indicato tre sospetti: il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), dei non meglio precisati “estremisti di sinistra” o il gruppo Stato islamico. Selahattin Demirtaş, leader dell’Hdp – che aveva organizzato la manifestazione di Ankara – ha proposto una quarta alternativa: qualcuno che cerca di fare gli interessi del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) del presidente Recep Tayyip Erdoğan.
Simili atrocità hanno certamente contribuito alla strategia di Erdoğan di creare un clima di paura prima delle elezioni del 1 novembre, con le quali spera di recuperare la maggioranza parlamentare che ha perso nelle elezioni di giugno. Ma è difficile credere che l’Akp abbia degli attentatori suicidi a sua disposizione: è un partito islamico, ma non così estremista.
È altrettanto improbabile che l’attentato sia opera del Pkk, perché gran parte delle persone presenti alla manifestazione erano curdi. Inoltre il Pkk è un’organizzazione laica e non usa attentatori suicidi. L’idea che i responsabili siano degli “estremisti di sinistra” è ridicola: quale potrebbero essere le loro ragioni? Quindi restano solo i jihadisti dello Stato islamico. Il gruppo usa abitualmente degli attentatori suicidi e sicuramente ce l’ha con Erdoğan. Questi è stato piuttosto gentile con il gruppo Stato islamico nei primi anni della guerra civile siriana, permettendo a migliaia di aspiranti jihadisti di attraversare liberamente la frontiera con la Siria. Erdoğan ha perfino chiuso la frontiera ai curdi che volevano aiutare la difesa di Kobane, una città a maggioranza curda nel nordest della Siria che ha resistito per quattro mesi all’assedio dei jihadisti.
5 giugno: la strategia stragista della Turchia prende di mira il comizio finale dell’HDP a Diyarbakir/Amed: 4 morti, centinaia e centinaia di feriti, di cui molti con le gambe mutilate.
Suruç, 20 lugliO: strage di giovani uomini e donne – 33 morti e un centinaio di feriti – che volevano andare a Kobane, in Rojava, Per contribuire alla ricostruzione della città. Attacco pianificato a tavolino, visto che alla stessa ora un veicolo imbottito di esplosivo cercava di buttarsi contro un checkpoint delle YPG a Kobane. Secondo l’Unione delle comunità del Kurdistan, dietro la strage di Suruç ci sarebbe un piano dei servizi di intelligence turchi – quello stesso MIT che sta dietro l’omicidio di Sakine Cansız, Fidan Doğan e Leyla Şaylemez – per entrare in Siria. Inoltre, la successiva equiparazione dell’ISIS alla resistenza kurda avrebbe come obiettivo reale quello di prepararsi ad attaccare la rivoluzione in Rojava.
24 luglio: Günay Özarslan, viene crivellata di colpi in casa sua dalla polizia.
Dal 24 luglio, le postazioni del PKK nel Kurdistan iraqeno vengono bombardate per settimane, col risultato di morti e feriti tra guerriglieri e popolazione civile (1 agosto: carneficina di civili a Zergelê), insediamenti abitativi, boschi e pascoli in fiamme. Col pretesto di combattere ISIS, l’esercito turco comincia a bombardare anche nel nord della Siria.
25 luglio: cominciano le operazioni militari a Cizre dove, a metà agosto, inizierà il coprifuoco dopo la dichiarazione dell’autogoverno. La situazione si protrarrà per settimane, con la città completamente isolata dalle forze militari, decine di morti. Il governo turco negherà, poi, di aver fatto vittime civili a Cizre.
DO YOU REMEMBER…STRATEGIA DELLA TENSIONE?
Bomba di Stato”. “Strategia della tensione”. “Stato profondo”. Le parole che circolano in una parte dell’opinione pubblica in Turchia per descrivere l’attentato del 10 ottobre – il più sanguinoso della storia repubblicana turca, costato la vita a oltre cento persone – a noi italiani fanno tornare in mente un periodo buio. Quello del terrorismo nero, di Gladio, dei servizi deviati, di quelli stranieri, dei legami tra Stato e criminalità organizzata. E la Turchia di oggi, come l’Italia, ha la sfortuna di essere una pedina in un Grande Gioco i cui protagonisti preferiscono agire nell’ombra piuttosto che alla luce del sole, e per cui il fine giustifica qualsiasi mezzo.
Secondo la ricostruzione delle autorità turche sarebbero stati due kamikaze a portare la morte nella manifestazione pacifista, organizzata da partiti e organizzazioni curde e della sinistra, che chiedeva la fine delle ostilità – cominciate lo scorso luglio, dopo una tregua che durava dal 2013 – tra Ankara e i guerriglieri marxisti del Pkk curdo.
Il premier Ahmet Davutoglu, esponente dello stesso partito di Erdogan, in assenza di una rivendicazione ufficiale dell’attentato ha indicato lo Stato Islamico come il principale indiziato(dopo aver avanzato, in un primo momento, sospetti anche sul Pkk e su sigle di estrema sinistra). L’obiettivo di questo attacco dell’Isis, secondo Davutoglu, sarebbe stato destabilizzare il Paese alla vigilia del voto di novembre. Il modus operandi, secondo gli analisti di intelligence, sarebbe in effetti quello dello Stato Islamico e, come già successo anche in Occidente, l’opera di “cani sciolti” (cioè simpatizzanti non strettamente legati a un’organizzazione) non può essere esclusa.
In un primo momento si era anche pensato alle organizzazioni di estrema destra nazionalista (storicamente nemiche dei curdi), come quella dei “lupi grigi”. Queste ipotesi però non convincono parte della popolazione turca, e non solo, che invece ritiene quanto successo opera dello Stato. O meglio, dello “Stato profondo”, cioè quell’intreccio tra uomini di governo, servizi segreti (il Mit), e gruppi terroristi (islamici, di estrema destra).
Le ragioni per cui la versione ufficiale viene guardata con scetticismo anche da esperti occidentali di terrorismo e intelligence sono molte. In primo luogo, l’attentato, per come era stato organizzato, sembra aver richiesto una preparazione che difficilmente avrebbero potuto avere dei “cani sciolti”. Servivano competenze maggiori. Dovendo allora ipotizzare che alla base ci fosse una pianificazione più accurata (e quindi più facilmente intercettabile) della strage, sembra improbabile che il Mit, ritenuto anche dalle intelligence occidentali come uno dei migliori servizi segreti al mondo, non si fosse accorto di nulla. Se poi venissero confermate le indiscrezioni che vorrebbero collegati uno degli attentatori di Ankara e un altro jihadista che aveva già colpito in passato (in particolare a Suruc lo scorso luglio), la “svista” del Mit sarebbe del tutto implausibile: è normale prassi di tutti i servizi del mondo controllare strettamente i parenti e i legami stretti dei terroristi già noti. Certo, possono nascondersi e sfuggire alla vista, ma difficilmente riescono anche a procurarsi grandi dosi di esplosivo e passare inosservati.
La tesi che circola dunque è che il governo turco – e i servizi – sapessero se non i dettagli dell’attentato almeno il tipo di operazione che una cellula dell’Isis stava preparando, e abbiano chiuso gli occhi. Ma perché? I motivi che vengono addotti sono diversi. Secondo Selahattin Demirtaş, leader del Hdp, Erdogan vorrebbe causare una reazione violenta e armata del Pkk, per avere una scusa per tenere i seggi chiusi nelle province curde della Turchia durante le prossime elezioni di novembre, e avere così maggiori chance di ottenere la maggioranza assoluta che tanto desidera.
Altra teoria di carattere “elettorale” è che l’attuale establishment di potere turco, legato al partito di Erdogan, stia cercando di esasperare la situazione colpendo la sicurezza nel Paese (e provocando sempre il Pkk) per far affluire sul partito al potere anche i voti dei nazionalisti di destra. A riprova di queste due teorie ci sarebbe la recente condotta di Ankara che, dopo aver annunciato lo scorso luglio che avrebbe preso parte ai bombardamenti contro l’Isis, da allora ha in realtà prediletto gli attacchi contro il Pkk curdo. Nel panorama di chi ritiene che questo attentato sia riconducibile alla volontà di Erdogan di non cedere il potere e mantenere l’attuale linea (specie in politica estera), c’è anche chi ipotizza una “manina” dei Sauditi, alleati della Turchia in Siria contro Assad, e storicamente legati a cellule del fanatismo islamico.
Ma, come sempre in queste situazioni, l’avvertimento che viene dagli esperti è di guardare al “cui prodest”: chi trarrà i maggiori benefici da questo attentato sarà anche indiziato, se non proprio il colpevole. In tal caso si deve prendere in considerazione anche l’ipotesi che Erdogan venga travolto dalla questione sicurezza – specie se dovessero emergere nei prossimi giorni sue gravi responsabilità, e già il Ministero degli Interni pare traballi – e segni il tramonto della sua parabola politica. Potrebbero giovarsene sicuramente nel breve termine i suoi avversari in Siria, l’Iran e ora anche la Russia, ma secondo l’opinione di alcuni analisti di intelligence nessuno di questi Paesi avrebbe seguito quel modus operandi. Per cui rimangono ipotesi molto deboli. Senza contare che Erdogan non ha dato negli anni prova di grande lungimiranza strategica, e che quindi se anche il clima creatosi si ritorcesse contro di lui non si potrebbe comunque escludere una sua responsabilità nell’attentato.
La guerra sporca argentina (“Guerra sucia”) è stata la politica di repressione violenta attuata in Argentina allo scopo di distruggere la cosiddetta “sovversione”, rappresentata dai gruppi guerriglieri marxisti o peronisti attivi in Argentina dal 1970, eliminando in generale qualunque forma di protesta e di dissidenza nel Paese presente nell’ambiente culturale, politico, sociale, sindacale e universitario.
La brutale campagna repressiva ebbe il suo momento culminante tra il 1976 e il 1979 e venne condotta in segreto, al di fuori di ogni controllo legale, da una serie di corpi speciali e di unità “antisovversive” costituite dalle forze armate e dalla polizia federale, secondo i programmi pianificati e attuati dalla Giunta militare argentina con a capo il generale Jorge Rafael Videla.
Durante questo periodo, decine di migliaia di persone, sospettate di appartenere ad organizzazioni studentesche, sindacali, politiche o che si ritenesse potessero svolgere una qualsiasi attività che interferisse con la politica della Giunta militare furono arrestate, torturate e segretamente uccise, creando il fenomeno dei desaparecidos, letteralmente “persone fatte scomparire”, ossia coloro che, una volta sequestrati, non risultavano nei registri dei commissariati di polizia o delle autorità militari e di cui era impossibile ricevere notizie, anche in merito ad un eventuale decesso; queste persone subirono, in centri di detenzione clandestina, abusi, violenze e torture e di circa 30.000 di loro non si seppe più nulla.
Il sistema dei sequestri illegali e della detenzione in segreto non ebbe propriamente inizio dopo il colpo di Stato; durante il governo costituzionale c’erano già stati oltre 500 “scomparsi” (desaparecidos), ma con l’inizio del Proceso il piano di annientamento dell’opposizione, reale o presunta, divenne sistematico e particolarmente brutale configurandosi come un reale sistema di terrorismo di Stato. L’obiettivo del regime era estremamente radicale: sarebbero dovute essere eliminate “tutte le persone che si fosse ritenuto necessario”.
Sovversivi erano coloro che desideravano una rivoluzione sociale, come per esempio gli adolescenti che aiutavano i poveri delle villas o i giornalisti non in linea alla dittatura, i pacifisti, gli avvocati, gli intellettuali, i giovani in generale e chiunque si occupava di diritti umani. I militari organizzarono 340 centri di detenzione segreta dove venivano rinchiusi gli “oppositori”.
Fu un progetto di genocidio ideologico che venne eseguito con una chiara visione del futuro: mutilare la società di un’intera generazione che in futuro avrebbe potuto essere un potenziale nemico politico, facendo terra bruciata delle idee, delle speranze, dei progetti sociali e del futuro. Le vittime di questa ondata di morte furono riconosciute solo a seguito della dichiarazione di morte presunta, ottenuta dalle Madri di Plaza de Mayo, con l’appoggio dei movimenti per i diritti umani, tra i quali Amnesty International, nel 1983, che consentì, due anni dopo, l’apertura di procedimenti penali avverso gli appartenenti alla Giunta militare.
Per spiegare l’impunità durante e anche dopo la fine della dittatura bisogna indagare sulle complicità. Un primo livello i complicità, non istituzionale ma diffusa – comprensibile ma non giustificabile – è quella che era nata dalla paura che la dittatura aveva saputo infondere nel tessuto sociale.
Davanti ai continui sequestri la gente si rendeva complice pensando “por algo será”, per qualcosa sarà pure stato, avranno commesso qualcosa…I partiti politici e la magistratura argentina hanno giustificato il loro silenzio anche dopo la fine della dittatura con un “imperioso bisogno di voltare pagina”. Ma era impossibile dimenticare.
Così come allora è stata l’Operazione Condor, ovvero la massiccia operazione di politica estera statunitense, che ha visto coinvolta in primis l’Argentina, volta al ricorso sistematico della tortura e dell’omicidio degli oppositori politici, è oggi la strategia della tensione attuata dal governo turco di Erdogan contro la popolazione curda, soprattutto contro il PKK e le organizzazioni autogestite di Kobane e del Rojava, le quali rappresentano un reale nemico politico da eliminare.
A poche settimane dalle elezioni, lo scorso 10 ottobre abbiamo visto un attentato ad Ankara durante una manifestazione contro il governo fascista di Erdogan che ha contato più di 120 morti e altre centinaia di feriti. Il diretto responsabile di questo attentato è Erdogan, e non è la prima volta che assistiamo a episodi del genere: a Suruc 30 giovani attivisti sono stati massacrati in un centro culturale.
Avvicinandosi le elezioni, e comprendendo la forza che organizzazioni come quelle del Rojava stano assumendo, oltre alla capacità di autodeterminare i propri diritti, Erdogan sta pensando bene di adottare la strategia della tensione arrivando a commettere stragi di Stato come quella del 10 ottobre, come è successo in Piazza Fontana il 12 dicembre 1969, tentando di eliminare qualsiasi tipo di opposizione e resistenza.
“Non sono le bombe, il vostro silenzio ci uccide” è la frase scritta su un muro comparsa ad Ankara. Così come a metà degli anni 70 in Argentina la dittatura ha vinto diffondendo la paura tra le persone, così sempre l’indifferenza significherà complicità.
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