A Jaffa abbiamo incontrato una ragazza e un ragazzo israeliani che hanno scelto di diventare obiettori di coscienza, arrivando anche a subire il carcere per questo. Per garantire la loro sicurezza, soprattutto visto che uno di loro è ancora sotto processo militare, gli daremo due nomi di fantasia: Daniella e Benjamin.
intervista a cura di cantiere.org
Come siete arrivati a questa scelta?
B: Allora, innanzi tutto devi capire che io vengo da una famiglia di destra. Ma non tanto perché la mia famiglia lo sia tradizionalmente: è che qui in Israele la cosa dell’arabo come nemico giurato, che ci vuole uccidere tutti, da cui ci dobbiamo difendere, pervade ogni cosa, ogni discorso, a partire dalla scuola. Cioè a scuola a me insegnavano queste cose: che gli arabi vogliono rubarci la terra, mandarci via da casa nostra, che dobbiamo essere forti per poterci difendere. Non ti dico poi quando sono andato al liceo, perché io ho fatto l’accademia militare. Era tutta una retorica della difesa: essere di sinistra, pensare anche soltanto a una pace possibile che tenesse gli arabi dentro l’equazione, era il peggior insulto che qualcuno potesse farci. Se anche qualcuno ti insultava la mamma non ti ritenevi così offeso come quando qualcuno ti diceva che sei di sinistra.
Così nel 2012, quando ci sono state le elezioni, se qualcuno mi avesse chiesto cosa avrei votato non avrei risposto destra, ma la destra più estrema possibile. Ne ero convintissimo.
Poi però proprio per la campagna elettorale sono passato vicino, qui a Giaffa, ad un comizio di Dov Khenin. È stata la prima volta che ho sentito parlare dei Palestinesi non come nemici. E questo, non so perché, mi ha cambiato: volevo capirci di più. Però neanche allora… cioè ho finito la scuola, dovevo iniziare la leva obbligatoria: ma nonostante i dubbi che avevo, nonostante stessi iniziando ad avere una visione diversa della realtà delle cose rispetto a quella che mi avevano insegnato a scuola, comunque non riuscivo ad immaginarmi di non fare il militare. Cioè, se non lo facevo chi ero? Tutta la mia educazione, tutta la mia formazione andavano in quella direzione. Anche all’accademia… Cioè, io ero un bravo studente. Il mio tutor continuava a dirmi che io ero fatto per la carriera militare, che era la mia strada. Non è facile cambiare tutto questo. Quindi mi sono arruolato. Ho fatto l’addestramento: è stato allucinante. Perché tutto quello che ti insegnano a scuola qui viene moltiplicato per cento. Gli arabi sono i nemici da combattere, da eliminare, e il punto è ben sottolineato. Pensa che ci portavano a sparare, no? Ci facevano fare le esercitazioni di tiro con il fucile e i bersagli. Però sui bersagli c’erano le facce di uomini e donne arabi. Era un lavaggio del cervello continuo.
Così ho iniziato a cercare di capire come fare ad andarmene dall’esercito, ma il problema è che in Israele non puoi semplicemente dire: “non voglio più fare il militare”. Una volta che hai iniziato, per uscirne devi combinare qualcosa, voglio dire: devi compiere un reato militare. Così io ho deciso di essere assente ingiustificato. Non mi sono presentato all’appello per giorni. Quindi sono stato messo agli arresti e portato in una prigione militare per un mese. È stata un’esperienza terribile. So che per alcuni non è così, ma per me lo è stata. Ci facevano marciare tutti i giorni, le manette ai polsi, era una violenza continua…
Quindi poi sei riuscito ad uscirne…
B: No, in realtà non ancora. Perché in realtà tu non puoi uscire dall’esercito perché semplicemente non approvi i loro metodi, o l’ideologia che ci sta dietro. L’unico motivo per cui puoi uscirne è per motivi psicofisici, se quindi secondo loro “non sei adatto”. È il loro modo per far passare te come problematico, come debole, non abbastanza capace di sopportare la tensione, e nascondere la questione dell’obiezione di coscienza alla società israeliana. Siamo noi i deboli, non è il sistema ad essere malato. Siamo noi i manchevoli. Comunque, inadatto o meno volevo a tutti i costi andarmene dall’esercito, così dopo la prigione ho attivato la pratica: non avevo problemi fisici quindi ho sostenuto una mancata stabilità psicologica. Che tra l’altro in quel momento era anche vera: tra il rifiuto che avevo maturato per l’esercito e quello che avevo passato in prigione, ero davvero molto fragile.
Ma anche qui c’era un problema: mentre la pratica veniva esaminata io venivo ancora considerato un militare. In teoria sarei dovuto tornare nel mio battaglione e continuare la leva mentre valutavano la mia richiesta. Ma io non ne avevo nessuna intenzione, così sono risultato di nuovo assente ingiustificato e mi sono fatto ancora la prigione, fortunatamente solo per 2 settimane. Adesso ho ancora l’obbligo di firma, ma sono fuori: da tutto, dalla prigione e dall’esercito.
E tu, Daniella? Hai avuto anche tu un percorso simile?
D: Per la verità per me è stato diverso. Io venivo da una famiglia di sinistra, anche se pur sempre sionista. Anche le scuole che ho frequentato erano più liberali di quelle di Benjamin.
Per quanto mi riguarda, credo il momento in cui ho cambiato punto di vista rispetto a quello che mi insegnavano a scuola o i media è stato proprio a scuola, durante una lezione sull’Olocausto. Ci raccontavano degli ebrei in Polonia, dicendo come la propaganda nazista li presentasse all’opinione pubblica come gli untori, il nemico numero uno, da sterminare prima che loro sterminassero gli ariani. E non lo so, qualcosa è scattato, ed ho capito che era lo stesso che noi stavamo facendo con i palestinesi.
Così quando ho ricevuto la chiamata per il servizio militare ho deciso di rifiutarmi, fin dall’inizio. Se sei una ragazza è più semplice. Ci sono tre modi fondamentalmente per sottrarsi al servizio militare: o sei un’ebrea ortodossa, o ti sposi, o dichiari di essere una pacifista. Io ho scelto la terza opzione, anche perché effettivamente io sono una pacifista. Mi hanno fatto un colloquio e una serie di test, per verificare che lo fossi davvero. Li ho passati e allora ho iniziato il servizio civile. Ho prestato servizio in diverse associazioni, soprattutto media indipendenti che cercano di contrastare la versione unica di Israele.
Abbiamo fatto cose molto interessanti, anche con i Palestinesi.
Sei stata nei territori?
D: Sì, ma sempre e solo su invito. Sai, noi imponiamo la nostra presenza, come israeliani, ogni giorno ai palestinesi attraverso l’occupazione. Io, quando vado, voglio che sia perché sono benaccetta, perché a loro va bene che io sia lì.
Anche se la prima volta che sono andata è stata quasi comica: sai che per noi è un problema entrare nei territori, teoricamente l’esercito dovrebbe impedircelo…
I famosi cartelli rossi…
D: Già! Lì te lo scrivono proprio direttamente, no? “Questa strada porta all’Area A, sotto il controllo dell’Autorità Palestinese. L’ingresso è proibito ai cittadini israeliani, pericoloso per la vostra vita e contrario alla legislazione israeliana.” Comunque la prima volta che sono entrata nei territori stavo andando a Betlemme. Però appunto non potevo dire di essere cittadina israeliana, altrimenti mi avrebbero fatto storie e forse anche bloccata. Così ho deciso di fingermi cittadina americana. Ho fatto finta di essere una un po’ svampita, di aver dimenticato il passaporto a Betlemme, e di voler tornare indietro a riprenderlo. Se non fosse che, dopo aver fatto tutta la scena, mi sono accorta che uno dei soldati al checkpoint era un mio vecchio compagno di classe al liceo. Però lui non ha detto nulla e io sono passata.
B: Per quanto riguarda me, la prima volta che sono andato nei territori ero terrorizzato. Ci andavo come attivista, invitato dai palestinesi, ma erano riemerse tutte le convinzioni che la scuola e vent’anni di vita qui mi avevano inculcato. Nonostante cercassi di razionalizzare, una parte di me continuava a pensare che mi avrebbero ucciso: tanto è forte il lavaggio del cervello che ci fanno. Poi invece sono arrivato dove avevamo l’incontro con altri ragazzi palestinesi, ci hanno accolto benissimo, abbiamo parlato, ci siamo confrontati, e piano piano i timori sono scomparsi.
D: Sì, perché devi capire che a noi la paura per gli arabi ce la insegnano, seminandola nel profondo… Ma arrivano a un livello tale per cui storpiano pure la storia: cioè, se tu oggi chiedi a un bambino israeliano chi è responsabile dell’Olocausto non è difficile che ti si risponda “gli arabi”. Non sto scherzando. Ed è chiaro che è un’assurdità, ma questo è il livello.
La chiacchierata è continuata attraverso le esperienze di noi tutte/i in Palestina e in Israele, affrontando le diverse percezioni che sia noi, sia loro abbiamo della realtà della regione. Alla fine Daniella ci ha chiesto una cosa, che secondo noi è importante e quindi riportiamo qui come messaggio:
Per favore, ditelo a tutti, in Europa e in Palestina quando ci tornerete, che in Israele ci sono attivisti che lottano contro l’occupazione, che lavoriamo per la pace, per la condivisione con tutti quelle e quelli che abitano la regione. Ditelo, per favore.