Due giorni prima che arrivassimo in Palestina, era apparsa su tutti i giornali la notizia dell’attacco israeliano alla Spianata delle Moschee, anche se in realtà sui media internazionali e soprattutto su quelli italiani l’accaduto era stato archiviato con un generale “scontri”, nella classica retorica mediatica del “conflitto” che vuole due parti più o meno equivalenti l’una contro l’altra.
Quello che nessuno però oltremare racconta, perché appunto metterebbe in crisi la retorica di cui sopra, è che le provocazioni israeliane nei luoghi (sacri e profani) che raccontano la storia e l’identità palestinese (un’identità oltretutto frutto di incontri e trasformazioni continue tra popoli a volte molto diversi) sono ordinarie e quotidiane.
Nei fatti, l’attacco alla Spianata delle Moschee è qualcosa che i partiti della destra israeliana (estrema e non) portano avanti da tempo, in quanto la distruzione della moschea di Alaqsa e di Omar, nell’ottica della ricostruzione del tempio distrutto da Tito nel 70 d.C., significherebbe cancellare uno dei simboli architettonici, culturali e identitari, prima ancora che religiosi, della presenza araba in Palestina.
La propaganda anche scolastica promossa da Israele, infatti, sostiene sempre, più o meno esplicitamente, l’idea che, prima della fondazione di Israele come stato ebraico nel 1948, la Palestina fosse disabitata e deserta, abbandonata a se stessa dai tempi della diaspora. Distruggere quindi le architetture di altri periodi significa disintegrare e cancellare completamente ogni prova del contrario: del fatto quindi che la Palestina da sempre sia stata crocevia di popoli e religioni, a partire dalle tre religioni del Libro, che vi hanno convissuto.
Ma come appunto dicevamo, non si tratta solo della Spianata delle Moschee, quanto piuttosto di un modus operandi diffuso in tutto il territorio palestinese: a partire dal cambio dei nomi delle città palestinesi conquistate dal ’48 in poi, alla narrazione che si appropria di ogni luogo e/o reperto storico riconducendolo ad un’origine ebraica e che vorrebbe appunto cancellare tutto ciò che non si adatta a tale narrazione. Allo stesso modo, gli attacchi dei coloni nel centro di Gerusalemme, le aggressioni serali a civili (in prevalenza donne, bambini e adolescenti) sono alcune delle strategie che Israele porta avanti nel tentativo di convincere sempre più persone dei quartieri armeno, cristiano e musulmano a lasciare la città vecchia, facendone così definitivamente la capitale ebraica, unica e indivisibile che Israele rivendica fin dalla sua fondazione.
Ed ecco che quindi non stupisce vedere comparire anche nei quartieri arabi della città vecchia, reti tese a riparare le strade del suq dalla spazzatura e della pietre lanciate dagli israeliani (ma sarebbe più appropriato parlare di “coloni”) che abitano ai piani superiori: la stessa strategia che da anni vediamo ad Al-Khalil (Hebron, in ebraico), dove la colonia è interna alla città vecchia e dove i palestinesi sono sotto assedio nelle loro stesse case.
Tuttavia, la politica di colonizzazione di Gerusalemme non si limita alla sola città vecchia: al contrario il luogo in cui forse è maggiormente visibile la voracità delle colonie nel conquistare ogni centimetro di terra è la parte est della città. Qui Israele da anni porta avanti una politica che non può essere definita in altro modo se non “devastazione e saccheggio”, con ordini di demolizioni quotidiane per far spazio a sempre nuovi insediamenti, con gli attacchi dei coloni ai campi di ulivi che vengono segati o sradicati dai bulldozer israeliani, o ancora con il muro, che ormai taglia completamente fuori Gerusalemme Est dal resto della città, annettendola di fatto ai territori occupati, alla faccia degli Accordi di Oslo e delle risoluzioni ONU e della stessa Alta Corte Israeliana che definiscono muro e insediamenti illegali.
La colonizzazione infatti, nonostante le lacrime da coccodrillo di Bibi all’ennesimo bambino palestinese bruciato vivo dai coloni, è largamente appoggiata è legittimata dal governo israeliano, che continua ad autorizzare la costruzione di nuovi insediamenti con la conseguente distruzione di interi villaggi palestinesi: dal 2009 infatti, ovvero dall’insediamento di Netanyahu al governo, i fondi destinati dal governo israeliano agli insediamenti sono cresciuti di oltre il 30%.