
“Avevo 17 anni quando fui arrestato per la prima volta. Era la seconda intifada. L’esercito era entrato nella città sparando gas lacrimogeni e proiettili. Prima però aveva lanciato missili direttamente sulle case. Noi eravamo già tutti in mezzo alla strada, come sempre quando si appresta un attacco: i missili ci avevano colti di sorpresa. Uno è caduto proprio in mezzo alla via. L’esplosione è stata fortissima. Pezzi di persone volavano tutti intorno. Le schegge erano una nuova pioggia di proiettili dopo l’esplosione: mi hanno perforato lo stomaco e l’intestino, oltre a colpirmi sulle braccia, sulle gambe, sulla schiena. I feriti erano ovunque, le grida mi circondavano.
Qualcuno aveva chiamato l’ambulanza, ma non arrivava. Israele aveva allestito un posto di blocco appena fuori dalla città vecchia e non facevano passare i soccorsi. Quando finalmente le ambulanze sono riuscite ad arrivare alla zona dell’esplosione erano passate 2 ore. Mi hanno caricato sull’ambulanza per portarmi all’ospedale, ma al posto di blocco l’ambulanza è stata bloccata di nuovo: eravamo tutti in arresto.
Ci hanno trasportati in caserma: hanno iniziato subito a interrogarci. Io avevo ferite aperte gravissime, continuavo a richiedere trattamenti medici ma mi avevano fatto capire perfettamente che non avrei visto nemmeno una benda finché non avessi fatto dei nomi, finché non avessi parlato di chi, in quei giorni, stava combattendo l’esercito casa per casa.
Alla fine mi rila

sciarono 3 giorni dopo, o meglio, mi trasferirono all’ospedale della prigione.
Lì mi hanno curato, ma non hanno fatto davvero tutto ciò che potevano e dovevano fare: i tre giorni di interrogatorio avevano fatto sì che le mie ossa, rotte e disarticolate dall’esplosione, iniziassero a rinsaldarsi nella posizione sbagliata. Ma nessuno ha fatto in modo di curarmi adeguatamente, solo lo stretto necessario a farmi sopravvivere. Anche se già solo per questo ci sono voluti 6 mesi.
Quando sono stato nelle condizioni di lasciare l’ospedale mi hanno riportato in galera. Non avevano ancora formulato un’accusa. Non sapevo esattamente per cosa mi avessero arrestato considerando che non stavo facendo assolutamente nulla quando sono stato preso, ma in effetti non è che questo conti molto da queste parti: agli Israeliani basta trovarti in un gruppo di più di 10 persone per accusarti di manifestazione illegale, e quindi arrestarti.
Dopo altri 5 mesi di interrogatori e prigione finalmente mi hanno portato da un giudice, che mi ha dato 10 anni. Non me lo aspettavo: cosa avevo fatto per rimanere in prigione, e poi così a lungo?

D’altronde il processo era stato una farsa: il mio avvocato era palestinese, il giudice quasi non lo faceva parlare, sicuramente poi non lo stava a sentire. Avevano già deciso ancora prima di vedermi la prima volta come sarebbe andata a finire. Non era un processo, era solo una comunicazione.
Così, mi hanno riportato in prigione: nel frattempo, continuavo a soffrire terribilmente. Le ferite si erano quasi tutte stabilizzate nel modo sbagliato e di notte, con l’umidità della prigione sentivo dolori lancinanti. Continuavo a chiedere di incontrare un medico, di essere trasportato in ospedale, ma non succedeva mai nulla. Una volta, addirittura, a una ONG che voleva visitarmi hanno risposto che io rifiutavo le visite. Provai di tutto: lettere al tribunale, alle ONG, alla mia famiglia, per chiedere loro di aiutarmi.
È stato per questo che sono finito in isolamento. Mi ci hanno tenuto 4 mesi e mezzo. La cella era nei sotterranei della prigione, minuscola, senza neanche una finestra che lasciasse filtrare la luce. Il bagno era piccolissimo, dentro la cella. Non sapevamo mai che giorno o che ora fosse, e quando lo chiedevamo ai soldati ci ignoravano, o ridevano.
Avevamo un’ora d’aria al giorno, ma l’aria non la sentivamo neanche: ci facevano uscire in una stanza appena un po’ più grande, sempre nei sotterranei della prigione. Il sole era disegnato su una parete.
Ogni tanto, soprattutto mentre dormivamo, i soldati entravano nelle celle e sparavano i lacrimogeni dentro. Non potevo respirare. Un ragazzo, in una cella vicina alla mia, si era preso due aumenti di pena per aver fatto cadere il soldato che veniva a sparare il gas. Ma anche questo era importante, cercare di resistere a ogni costo. Tra di noi parlavamo sempre del futuro, di cosa avremmo fatto una volta usciti, della nostra vita da liberi, ma dovevamo stare attenti a non farci sentire. Israele cerca di toglierti tutto, ma soprattutto la speranza.

Dopo 4 mesi di isolamento ricevetti una visita del direttore della prigione: mi disse che se volevo uscire dall’isolamento dovevo smetterla con la storia dei trattamenti medici. Tanto non li avrei avuti comunque. È stato in quel momento che mi ha mostrato la mia lettera al tribunale israeliano perché valutasse la mia richiesta di cure. Per tutto quel tempo era rimasta sulla scrivania del direttore, al tribunale non c’era mai neanche arrivata. Dopo due settimane decisi di accettare: firmai un foglio in cui dicevo di star bene, che non avrei avuto bisogno di altre cure. Così uscii dal l’isolamento.
Ma le condizioni detentive erano impossibili anche nella prigione normale. Anche qui, ogni tanto, entravano a sparare gas nelle celle, o magari facevano irruzione per i controlli mentre vedevano che stavamo dormendo (le celle hanno tutte delle telecamere all’interno).
Soprattutto quello che ci mancavano erano i contatti umani, con altre persone al di fuori. Provare a comunicare con loro era pericoloso. L’esercito non ci permetteva di scrivere loro, o di avere colloqui. Ogni tanto provavamo a chiedere a qualcuno della Croce Rossa di portare dei messaggi all’esterno. Ma anche questo era pericoloso, perché Israele controlla medici e volontari della Croce Rossa forse ancora più dei prigionieri. Li perquisiscono alla ricerca di qualsiasi tipo di informazione. E poi ogni tanto, tra quelli che entrano per prestare supporto ai prigionieri, c’è un militare travestito da crocerossina/o. Così tu non sai mai di chi ti puoi fidare davvero, e a un certo punto smetti anche di provarci, per la paura dell’isolamento o di un aumento di pena.

Comunque io la prima visita la ricevetti dopo quasi 4 anni che ero dentro. Venne a trovarmi mia madre. Fu una visita breve, 45 minuti attraverso un microfono è un vetro di plexiglas. Nessun contatto fisico, nessun calore umano. Solo un telefono che registra ogni sillaba detta, che controlla che nessuno dica nulla sulle condizioni di detenzione.
Il punto è che la prigione per Israele è il tentativo di togliere ogni speranza ai palestinesi, di lasciarti completamente senza niente. Anche nelle cose più banali: non ti è quasi mai concesso di giocare a qualcosa, fosse anche solo una partita a carte. Se chiedi di un libro spesso te lo lasciano per un tempo ridicolo: un’ora, mezz’ora. Poi se lo riprendono. E se tu il giorno dopo richiedi lo stesso libro per andare avanti a leggere da dov’eri arrivato, ti dicono di no, di sceglierne un altro.
O ancora: non ti è concesso di lavare i vestiti. Più o meno una volta al mese vengono gli israeliani a raccoglierli, li lavano e poi te li restituiscono. Ma, spesso, ti tornano indietro molti meno vestiti di quelli che tu gli avevi consegnato. E così sei costretto a vestirti con l’uniforme della prigione.

È tutta una guerra psicologica, anche se forse quelle che stanno peggio nelle prigioni israeliane sono le donne, perché a tutto il resto si aggiunge la violenza di genere, che è fatta di tante cose. Degli stupri, ma anche molto più banalmente del soldato uomo che entra nella cella mentre la prigioniera si sta cambiando, o non ha indosso l’hijab. O della tensione psicologica che Israele esercita sulle madri in galera: se una donna è incinta o ha un bimbo piccolo, il bambino ha il diritto di stare con lei fino a due anni. Ma questo significa per il bambino vivere in prigione, senza nessun diritto o garanzia. Neanche alle cure quando sta male. Se un bambino si ammala, spesso la risposta che ti danno i secondini alla richiesta di medicine è: “fallo bere di più”.
E poi ci sono anche tanti bambini, tanti minorenni, nelle prigioni israeliane, soprattutto ad Ashrom: molti di loro sono in detenzione amministrativa, non sanno neanche perché sono dentro, né quanto ci staranno.
Ma, appunto, quella di Israele contro i palestinesi è una guerra combattuta su tanti e diversi fronti, e la nostra sopravvivenza è una questione di resistenza quotidiana.
Io quando finalmente sono uscito non riuscivo più a dormire la notte. Ora va meglio, ma i primi tempi il buio, il silenzio, mi facevano stare male: non mi sentivo al sicuro. Continuavo a pensare al missile, a quando mi avevano arrestato, alle violenze dell’esercito in prigione, ai gas nelle celle mentre stavamo dormendo, all’isolamento.

Non credo che potrò mai dimenticare ciò che mi è successo, o perdonare chi me lo ha fatto subire. Anche perché non riguarda solo me. Riguarda le migliaia di persone che sono ancora nelle celle israeliane per il semplice fatto di esistere; riguarda i bambini, le donne, gli uomini uccisi dai coloni che cercano di cacciarci dalla nostra terra. Riguarda l’occupazione, e finché questo andrà avanti non c’è alcuna possibilità di perdono. D’altronde, voi, se aveste passato tutto questo, sareste capaci di perdonare?”