La prova di forza che mima la rivolta che non c’è. di Bascetta e Mezzadra – Il manifesto.
Non sappiamo quali siano stati i motivi che hanno indotto la Rete No Expo a rinviare l’assemblea prevista per domenica 3 maggio (l’assemblea, si legge nel sito della rete, «si riconvoca nei prossimi giorni»).Resta il fatto che, dopo quanto avvenuto in piazza durante la Mayday, un importante spazio di confronto politico si è chiuso. E quelle che dovevano essere le «cinque giornate di Milano», preludio a sei mesi di «alterexpo», sono state fagocitate, non solo sui media mainstream ma anche nell’esperienza di migliaia di attivisti/e, da un paio d’ore di duri scontri.
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Il risultato è un certo spaesamento diffuso, la difficoltà nel prendere parola e nel rilanciare la mobilitazione (cosa che comunque la Rete No Expo fa con un comunicato). Meno di due mesi fa, a Francoforte, le cose erano andate in modo diverso. Il tentativo di blocco dell’inaugurazione della nuova sede della Bce era stato accompagnato da azioni e comportamenti non dissimili da quelli che si sono visti a Milano (pur in altre condizioni, dispiegandosi parallelamente a un insieme di blocchi appunto, e non durante il corteo che ha attraversato la città). E tuttavia la coalizione Blockupy, sottoposta a duri attacchi da parte dei media e delle istituzioni, era stata in grado di riaffermare immediatamente le ragioni dell’opposizione all’austerity e della costruzione di uno spazio transnazionale di azione politica contro il management europeo della crisi. Le stesse iniziative «militanti» assunte da gruppi esterni alla coalizione avevano finito per illuminare quelle ragioni, o comunque non le avevano oscurate. È quel che non è avvenuto a Milano. A noi pare che nella preparazione delle iniziative contro expo siano convissute due prospettive piuttosto diverse: da una parte quella che individuava nella manifestazione espositiva un grande laboratorio sociale, in cui venivano sperimentate nuove forme di sfruttamento e di messa al lavoro della cooperazione sociale, in cui si forgiavano nuovi spazi urbani, nuove gerachie e nuovi immaginari (e se ne rilanciavano al contempo altri, niente affatto nuovi, come segnalato ad esempio dalla campagna contro «We-Women for Expo»); dall’altra quella che considerava l’Expo come la realizzazione paradigmatica di una «grande opera».
Ci sembra evidente che la prima prospettiva, attorno a cui in questi anni sono nate importanti esperienze di inchiesta e sono stati messi in campo generosi tentativi di auto-organizzazione e di lotta, è risultata completamente spiazzata durante la Mayday: non è cioè riuscita a imporsi come polo di aggregazione e di indirizzo politico. A prevalere è stata la seconda: assunta l’Expo come simbolo delle «grandi opere», il simbolismo è dilagato tra le fiamme e le bombe carta, con una serie di slittamenti che dalle banche e dalle agenzie immobiliari sono giunti a investire normali negozi e qualche utilitaria. È un punto che va ribadito: a Milano tutto si è giocato sul piano del simbolico. Non v’è stata espressione di una rabbia sociale diffusa (che pure non manca), ma azione organizzata di soggetti che hanno scelto di attaccare i simboli del «potere» e del «capitale» perché convinti – almeno una parte significativa di essi – che non vi sia alternativa a una politica di pura distruzione, che non vi sia alcuno spazio per una lotta capace di distendersi nel tempo, di consolidare delle conquiste e di affermare nuovi principi di organizzazione della vita e della cooperazione sociale. Davvero il paragone con Ferguson e Baltimora, con movimenti di rivolta sociale che attraversano, coinvolgono e dividono intere comunità, è fuori luogo, a meno che non ci si voglia fissare esclusivamente sulle apparenze, sulle forme e sulle immagini dello scontro! Si potrà poi dire che qualche vetrina infranta, qualche banca e qualche automobile in fiamme non sono nulla di fronte alla violenza quotidiana della crisi, della povertà e delle guerre, che il disordine e la violenza che regnano nel mondo si sono palesati per una volta con segno rovesciato. Si potrà aggiungere che il riot milanese ha rovinato lo spettacolo della città tirata a lustro per l’Expo, ha offerto un controcanto alle fiamme tricolori e agli orribili pennacchi dei carabinieri in tenuta di gala, alle penose retoriche del «futuro che comincia adesso» e dell’«aspirazione di rimettersi all’onor del mondo». A noi sembrano, nel migliore dei casi, magre consolazioni: nelle strade di Milano, il primo di maggio, abbiamo visto piuttosto l’immagine della nostra impotenza, della nostra incapacità di mettere in campo forme efficaci di azione politica orientata alla destrutturazione dei rapporti di sfruttamento e alla trasformazione radicale dell’esistente. Abbiamo sempre pensato che l’esercizio della forza da parte dei movimenti debba essere commisurato prima di tutto a un principio: quello degli spazi politici che è in grado di aprire, dell’effettivo avanzamento del terreno di scontro che determina, delle conquiste e delle mediazioni che garantisce e consolida. Difficilmente questo principio può essere applicato a quanto abbiamo visto a Milano: il simbolismo dello scontro è stato esasperato fino ad assumere forme iperboliche, secondo una logica della messa in scena e della rappresentazione (mai troppo lontana dall’aborrita rappresentanza) di una rivolta che continua a non manifestarsi nella quotidianità. Ripensare forme conflittuali espansive e condivisibili, radicarle nei rapporti e nelle lotte sociali in modi capaci di moltiplicare la partecipazione, il consenso e il «contagio» torna a essere un problema politico fondamentale. Non auspichiamo certo piazze e manifestazioni pacificate (del resto, la «nuova etica» della polizia celebrata dai media, si è estinta nel giro di due giorni spaccando le teste senza casco nero di chi fischiava Renzi a Bologna): si tratta piuttosto di costruire collettivamente, e dunque politicamente, le condizioni perché la stessa espressione di antagonismo e rabbia trovi forme di canalizzazione affermativa, al di là di ogni estetica della distruzione.
Laboratorio Occupato Insurgencia
C’è una giornata di partecipazione e voglia di riprendersi metro dopo metro Milano nel giorno in cui la macchina del grande evento voleva trasformarla in una inaccessibile vetrina.
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Ci sono decine di migliaia di persone che hanno riso in faccia al terrore che media e questure hanno alimentato su questa giornata per demotivare la partecipazione.
Ci sono le azioni che contestano alcuni degli obiettivi della nostra rabbia che non è istintiva ma ragionata e diretta verso i responsabili della gestione della crisi, dei confini, dell’ impoverimento dell’Europa e dello sfruttamento. Ci sono spezzoni determinati e organizzati.
C’e la polizia che gasa il corteo continuamente e indistintamente con lacrimogeni ad altezza uomo.
Ci sono i soliti celerini che chiamano puttana un’attivista fermata.
C’e la stampa che difende la polizia sempre e comunque (anche quando uccide).
C’è tanta politica e tanti argomenti offuscati dal Main stream e dalla passione intramontabile per le banalizzazioni. Secondo noi in giornate come Questo primo maggio milanese il gioco non regge. Non regge cancellare tutto con la solita perimetrazione.
Non regge il discorso pubblico che con l’attenzione agli oggetti distrutti vuole nascondere le ragioni di chi ha costruito giorno dopo giorno il percorso di critica a Expo e che oggi ha portato in piazza 30mila persone. È una trappola nella quale non cadiamo. Siamo stati a Milano.
Sappiamo bene che quella moltitudine che oggi ha attraversato la città e’ più potente di ogni narrazione mediatica. Queste a caldo le prime cose che abbiamo da dire!
I riot che asfaltano il movimento – Luca Fazio
Le fiamme si sono appena spente, c’è ancora tanto fumo per le strade di Milano. A freddo, una volta dato sfogo al prevedibile sdegno, qualcuno dovrà pur avere il coraggio di ammettere una cosa piuttosto semplice, che ovviamente non nasconde il problema, anzi, ne pone più di uno: è andata esattamente come doveva andare.
Lo sapevano tutti, era previsto da mesi.
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Non è stata una festa la MayDay 2015 e forse il peggio deve ancora accadere. In questo momento ci sta pure la retorica della “Milano ferita”, però sarebbe più utile cercare di abbozzare qualche ragionamento. I fatti sono noti, è stata la manifestazione più spiata e fotografata degli ultimi anni. Una parte del centro storico di Milano, quella intorno a piazzale Cadorna — era previsto anche quello — è stata attaccata con una furia che non si era mai vista. Automobili date alla fiamme, finestrini mandati in frantumi con una rabbia disperata al limite dell’autolesionismo, lanci di bottiglie contro la polizia, vetrine infrante, accenni di barricate, negozi sfasciati. Silenzio assordante, rumori di cose che si spaccano, nuvole di lacrimogeni e adrenalina che sale quando poliziotti e carabinieri si innervosiscono e sembrano davvero intenzionati a fare sul serio. La confusione è tanta, ci sono stati fermi ma non è chiaro quanti, si dice una decina di ragazzi. Ci sarebbero undici feriti tra gli agenti. Lo spettacolo è desolante, sembrano immagini di un film girato in un altro paese, e ne sono stati già fatti di ragionamenti sulla rabbia cieca di chi si limita a spaccare tutto per cercare di resistere in qualche modo in un contesto dove è facile sentirsi tagliati fuori. A vent’anni soprattutto. Sono delinquenti? Può darsi, poi si sfilano l’impermeabile col cappuccio — per terra ce ne sono decine — e hanno facce da ragazzini qualunque. Sono violenti? Sicuramente, violenti che si accaniscono sulle cose e non sulle persone. Lo scontro con la polizia è solo mimato, virtuale come un videogioco: viste le forze in campo gli incappucciati non potrebbero neppure pensare di avvicinarsi. La loro violenza è anche stupida e vigliacca. Un’auto inutilmente spaccata, mica tutte Ferrari, significa una persona colpita alle spalle e con l’aggravante della casualità. Anche i “black bloc” hanno una macchina parcheggiata da qualche parte. A proposito. Qualche commentatore poco razionale, non l’editorialista di Libero o de il Giornale, a caldo ha detto che la polizia ha lasciato fare e che dovrà rispondere della gestione della piazza. Molto semplicemente, invece, la polizia ha agito con grande freddezza e intelligenza. Non c’è stato alcun contatto con i manifestanti. Non si è fatto male nessuno. Ci sono decine di automobili sfasciate e probabilmente un conto salato da pagare per tutti quei gruppi organizzati che invece sono stati almeno capaci di “portare a casa” un corteo determinato. Molto numerosi, almeno trentamila, a tratti anche felici di esserci. Per nulla spaventati, tantomeno sorpresi, per quello che stava accadendo nelle retrovie. La polizia poteva evitare lo “sfregio alla città”? Forse sì, se il ministro degli Interni avesse deciso di rispolverare il metodo Genova e dare la caccia ai ragazzini che si sono mascherati da blocco nero. Adesso che (forse) è tutto finito si può azzardare la domanda: sarebbe forse stato meglio se ci fosse scappato il morto? Anche quello era previsto che non dovesse accadere, e meno male. Angelino Alfano, almeno oggi, non si deve dimettere, le regole di ingaggio erano queste, la polizia non voleva il contatto con il blocco nero. A proposito. Analisti e dietrologi se ne facciano una ragione. I cosiddetti “black bloc” non vengono da Marte, non si sono “infiltrati” nel corteo e non sono nemmeno al soldo della spectre. Ci sono, sono un problema e bisognerà tenerne conto. Erano nel corteo, dentro, nemmeno in fondo. Gli spezzoni della manifestazione hanno dovuto giocoforza tollerarli e cercare di tutelare il corteo da una reazione della polizia che a un certo punto sembrava scontata. La MayDay era contro il blocco nero? Questo movimento, questa piazza, che è pur sempre il massimo che oggi si possa esprimere, non ne aveva la forza. Né militare, né politica. Questo è un limite. Ecco perché questo primo maggio è “politicamente” disastroso. Un’altra nota, non marginale. Quella di ieri, al netto di tutti i dispositivi di protezione che il corteo stesso ha messo in atto, era una piazza pericolosa. Eppure lì dentro hanno trovato posto ragazzini e ragazzine smarriti alla prima manifestazione, persone assolutamente non violente, decine di bande musicali che hanno continuato a suonare a festa. Si sono viste anche le solite vecchie volpi con la coda tra le gambe che non parlano più la stessa lingua delle piazze. Ma è come se inconsciamente ci si stesse abituando a considerare che ormai è nelle cose aspettarsi un conflitto sempre più aspro e con accenti disperati, senza obiettivi e tantomeno prospettive. Banalmente: questa stessa piazza, dieci anni fa, sarebbero state due. I cattivi dietro a prenderle, gli altri davanti con le loro buone ragioni. Gli “altri”, adesso, devono fare i conti con la realtà. D’ora in poi, come governare la piazza, ammesso che ci siano altre occasioni altrettanto importanti, diventerà un problema quasi insormontabile. Perché la giornata di ieri significa che nessuno a Milano, e anche altrove, ha più l’autorevolezza di poter decidere come si deve stare in un corteo. Questo è un problema politico: a posteriori, è chiaro che non si può accettare con leggerezza la convivenza con chi ha come uno unico obiettivo quello di spaccare tutto e basta. Quanto al futuro, possiamo dire che sull’opportunità di cedere fette di sovranità a chi non vive e non lotta in questa città (e che certo non ne pagherà le conseguenze) è bene aprire un dibattito una volta tanto sincero. I ragazzi e le ragazze del “blocco nero” si sono sfilati le felpe e sono a casa che si godono lo spettacolo dell’informazione mainstream, hanno vinto. Qui a Milano, a leccarsi le ferite, rimane un movimento che rischia di essere asfaltato per i prossimi anni a venire. La polizia, che oggi è sotto botta, potrebbe anche decidere che il limite è stato superato. Questa mattina le “autorità” si guarderanno negli occhi durante una seduta straordinaria del Comitato per l’ordine e la sicurezza. E qui a Milano è già cominciata una campagna elettorale che, anche alla luce di quello che è successo, non promette nulla di buono. L’Expo ha ancora sei mesi di vita, i No Expo hanno cominciato nel peggiore dei modi.
1 Maggio Milano – Il nodo del consesno – da Taranto Antifascista
Partiamo da un presupposto: chi sceglie di fare politica, lo fa seguendo un modello conflittuale preciso, sviluppato in anni di esperienze ed evoluzione.Non esistono modelli giusti o sbagliati a prescindere, belli o brutti. Esiste il contesto sociale su cui applicarli. Ed è su questo che i compagni portano avanti le dinamiche di piazza. Esiste una componente cittadina da intercettare e da coniugare alle rivendicazioni di piazza, scegliendo la via più opportuna per diffondere il più possibile il messaggio politico.
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Chi non considera questo dato di fatto, lo diciamo subito, è per noi un intralcio al tentativo di ottenere un mondo diverso. Gli individualismi non ci appartengono, ed è per questo che abbiamo deciso di partecipare al corteo No Expo di Milano inserendoci nello spezzone che ritenevamo più vicino alle nostre pratiche quotidiane, quello dei movimenti per la casa e delle lotte territoriali, attenendoci alle richieste e indicazioni dei compagni milanesi. Perchè questo è ciò che abbiamo imparato nella nostra militanza politica: rispettare innanzitutto il percorso politico di chi promuove le manifestazioni, come noi vorremmo che fosse rispettato il nostro, nella nostra città. E’ veramente paradossale che a pochi giorni dall’apertura dell’ Expo ci si stia scontrando sull’opportunità o meno di mandare in frantumi una vetrina o appiccare fuoco ad una macchina, distogliendo l’attenzione dall’analisi centrale che ci vede sempre più distanti dallo strato sociale innescando tra i compagni una gara di durezza/purezza. Come se alcuni militanti politici, noi compresi, fossero contrari all’utilizzo di determinate pratiche anche radicali che si sono sviluppate negli anni per determinare una insorgenza di piazza spontanea ma con un percorso antecedente ben strutturato. Ci ritroviamo a doverci addirittura giustificare, a far capire che no, noi non siamo quelli “dall’altra parte”. Non ci schieriamo contro chi ha scelto una pratica più diretta di manifestare il proprio dissenso e non facciamo il gioco dei media dei buoni e dei cattivi. Semplicemente valutiamo i contesti e capiamo come agire, per il sacrosanto diritto al dinamismo politico, che ci faccia capire una volta per tutte che le pratiche di piazza cambiano, i tempi cambiano e di conseguenza nulla può essere dato per scontato. E’ vecchia, ed abusata, anche la storia degli argini che costringono il fiume in piena, come giustificazione alla rabbia diffusa. Chi in questa occasione ha optato per un corteo comunicativo anzichè militante si sente bollato come “pompiere”, o come uno che questa rabbia non ce l’ha. In questo caso specifico il fiume siamo tutti noi, ma gradiremmo finire in un mare aperto piuttosto che in una diga chiusa. Lo spartiacque, per restare in tema, è proprio questo: costruire consensi e percorsi, utilizzare lo scontro come mezzo e non come fine. L’estetica del conflitto non deve appartenerci. La Val di Susa ci insegna che il lavoro capillare durante gli anni ha portato ad un’ accettazione delle pratiche sabotative, per lo meno in valle. La contaminazione è stata fondamentale anche nell’area flegrea e nei territori campani in emergenza rifiuti. E potrebbe essere addirittura decisivo un concertone nella città dei due mari ai fini di agibilità politica, se ben strutturato. Allora ci chiediamo, perché non costruire lo stesso modello in larga scala, in questi fondamentali appuntamenti nazionali e internazionali, come nel caso del No Expo?
Dalla parte dei teppisti* di Franco Berardi “Bifo”
Di prima mattina ho fatto una ricognizione per Milano per decidere che fare.
Piovigginava e l’asma mi rallentava il passo: dopo aver camminato un’oretta ho capito che era meglio tornarmene a Bologna. Si sapeva che a un certo punto sarebbe scoppiata la baraonda.
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La polizia non poteva farci niente per una ragione facile da capire: gli occhi di tutto il mondo erano puntati sull’inaugurazione dell’EXPO, un morto nelle strade di Milano non sarebbe stato buona pubblicità. A Genova quindici anni fa (come passa il tempo!) il potere intendeva dimostrare che i grandi del mondo sono inavvicinabili e se ci provi ti ammazzo. A Milano intendeva dimostrare di essere tollerante. Da una parte si fa festa con Armani e Boccelli perché ormai i giovani sono talmente frollati dalla disperazione che fanno la fila per poter servire gratis al tavolo di Monsanto e di McDonald. Dall’altra si permette di sfilare a qualche migliaio di sessantenni i quali, poveretti, credono che per telefonare ci vuole il gettone, e quindi sono ancora dietro a quelle vecchie storie dei diritti. Poi tremila teppisti hanno rovinato il banchetto, tutto qui. Ho letto l’articolo di Luca Fazio e vorrei esprimere un’opinione diversa dalla sua. Fazio scrive che i teppisti hanno rovinato una manifestazione democratica. Sarò brutale con spirito amichevole: a cosa serve manifestare per la democrazia? che utilità può avere sfilare per le vie della città dicendo: diritti, costituzione, democrazia? Io lo faccio talvolta (quando l’asma me lo permette) per una ragione soltanto: incontro i miei amici e le mie amiche. E’ quel che ci è rimasto della sfera pubblica che un tempo chiamavamo movimento. Ma non penso neanche lontanamente che si tratti di un’azione politicamente efficace. C’è ancora qualcuno che creda nella possibilità di fermare l’offensiva finanzista europea, o l’autoritarismo renziano con pacifiche passeggiate e referendum? A proposito: ci sarà un referendum contro la legge elettorale denominata Italicum. Probabile. Giusto per riepilogare voglio ricordarvi gli antefatti. Esisteva una legge elettorale denominata Porcellum (perché coloro che la avevano promulgata dichiararono fra le risate che si trattava di una porcata). La Consulta dichiarò quella legge incostituzionale, dunque sancì l’illegittimità del Parlamento eletto con quella legge. Fino al 2011 c’era almeno un Primo Ministro votato da una maggioranza. Si chiamava Berlusconi (remember?). Fu esautorato per volontà della Bundesbank, venne un primo ministro direttamente eletto dalla finanza internazionale di nome Monti. Il disastro fu tale che si tornò alle urne. Le urne risultarono enigmatiche, e dopo varie tergiversazioni emerse un tizio che nessuno ha votato ma nei sondaggi risultava vincente. Dal momento che questo tizio ha la fiducia dei mercati il Parlamento, eletto con una legge incostituzionale, ora si prostra ai suoi piedi. La cifra vincente del governo Renzi è il totale disprezzo delle regole costituzionali, perciò un parlamento incostituzionale vota una legge elettorale incostituzionale imponendola con il voto di fiducia. Tombola. A questo punto qualcuno raccoglierà le firme per un referendum. Referendum? Io ne ricordo un altro: il 90% del 70% degli elettori votarono contro la privatizzazione dell’acqua. Vi risulta che la privatizzazione dell’acqua sia stata fermata? A me risulta il contrario. E allora perché dovrei andare a votare al prossimo referendum? Qualcuno mi risponde: per difendere la democrazia. Democrazia? Ma di che stai parlando? L’80% dei greci appoggia il suo governo, ma la Banca Centrale europea ha detto con chiarezza che le regole non le stabilisce l’80% dei greci, ma il sistema bancario, quindi che i greci vadano a farsi fottere, e con loro la democrazia. Ma torniamo a Milano. Tremila teppisti spaccano tutto? Non esageriamo, ma certo hanno fatto abbastanza fumo. E i giornali parlano di loro più che di Renzi Armani e Boccelli. Come posso non essergliene grato? Sto forse proponendo una strategia politica? Credo io forse che spaccando le vetrine di tre banche (o magari di trecento o di tremila) il potere finanziario si spaventa? Non scherziamo. So benissimo che il potere finanziario non sta nelle vetrine delle banche, ma in un circuito algoritmico virtuale che nessuna azione teppistica può distruggere e nessuna democrazia influenzare. So benissimo che mentre tremila spaccavano vetrine diciassettemila e cinquecento correvano a lavorare gratis e questo è l’avvenimento più importante. So benissimo che nell’azione teppistica non vi è alcuna strategia politica. Ma c’è forse una cosa più seria. C’è la disperazione che cresce, limacciosa e potente, ai margini del mondo levigato. Cosa ne pensa Fazio (al quale rivolgo un saluto in amicizia) dei teppisti di Baltimore e di Ferguson? Pensa che dovrebbero avere fiducia nella democrazia? Io ricordo di avere visto (era la CBS?) un’intervista a una ragazza che stava in strada a New York una notte del novembre 2014. Il giornalista le chiedeva qualcosa sui bianchi e sui neri e lei rispose: “This is not about white and black. This about life and death.” Nel tempo che viene non capirete niente se penserete alla democrazia. Occorre pensare in termini di vita e di morte, e allora si comincia a capire. Ci stanno ammazzando, capito? Non tutti in una volta. Ci affogano a migliaia nel canale di Sicilia. Un numero crescente di ragazzi si impiccano in camera da letto (60% di aumento del tasso di suicidio nei decenni del neoliberismo, secondo i dati dell’OMS). Ci ammazzano di lavoro e ci ammazzano di disoccupazione. E mentre la guerra lambisce i confini d’Europa, focolai si accendono in ogni sua metropoli. Perché dovrei preoccuparmi dell’Italicum? E’ una forma di fascismo come un’altra. Abbiamo perso tutto, questo è il punto, e il primo maggio 2015 potrebbe essere il momento di svolta, quello in cui lasciamo perdere le battaglie del passato e cominciamo la battaglia del futuro. Non la battaglia della democrazia né quella per i diritti, meno che mai la battaglia per la difesa del posto di lavoro, che è stata l’inizio di tutte le sconfitte. La battaglia necessaria (e forse a un certo punto anche possibile) è quella che trasforma la potenza della tecnologia in processo di liberazione dalla schiavitù del lavoro e della disoccupazione. Quella battaglia si combatterà cominciando a comportarci come se il potere non esistesse, rifiutando di pagare un debito che non abbiamo contratto, rifiutando di partecipare alla competizione del lavoro e alla competizione della guerra. E’ impossibile? Lo so, oggi è impossibile, i giovani che hanno aperto gli occhi di fronte a uno schermo uscendo dal ventre della madre si impiccano a plotoni perché per loro il calore della solidarietà politica e della complicità amichevole sono oggetti sconosciuti. Ma se vogliamo parlare con loro è meglio che lasciamo perdere i gettoni, la democrazia e i diritti. E’ meglio che impariamo a parlare della vita e della morte.
Andrea Fumagalli
B.Brecht diceva: “Che vuoi che sia una distruzione (pardon, una rapina) di una banca di fronte alla sua creazione?”. Come non essere d’accordo? E come non essere d’accordo sul fatto che oggi lo stesso concetto di democrazia (non la democrazia) è diventato inutilizzabile (e di conseguenza la democrazia è morta, da mo’?)
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E un dato di fatto che oggi le decisioni che contano (economiche, geopolitiche, tecnologiche, finanziarie, mediatiche, alimentari) vengono prese ad un livello tale da non aver nessun confronto con qualsiasi forma di alternativa. Detto in altri termine, il nuovo potere dell’oligarchia finanziaria non solo ha spogliato la dialettica democratica ma ha asfaltato anche l’idea di un “contropotere”. Forse a questo punto, bisognerebbe parlare di “anti-potere”. Formalmente si può dire qualunque cosa, si può organizzare manifestazioni, vincere referendum, portare in piazza 3 milioni di persone, ecc. ma ciò risulta del tutto inutile. Il contropotere (vecchio), nelle forme annacquate di oggi, della “presa di parola”, della “proposta ragionevole” viene costantemente annichilito. Cosa rimane? La possibilità di un anti-potere sul piano militare dei rapporti di forza? Scherziamo? Un anti-potere sul piano della guerriglia e del riot? Non diciamo fesserie! Un minimo di soddisfazione iniziale, ma nulla più. Un anti-potere fondato su forme di sottrazione costituente di alternative non immediatamente sussumibili? Mah! Sul piano finanziario, fino a che punto è possibile la creazione di un circuito finanziario alternativo basato sulla produzione dell’umanità per l’umanità che utilizza una “moneta del comune”? Un anti-potere fondato sull’auto produzione e auto-organizzazione, fondato sull’occupazione (non l’affitto) di spazi di organizziamo cooperativa in grado di produrre valore d’uso e non di cambio (fabbriche recuperate,luoghi di cooperazione sociale non competitiva, ecc.)? Può darsi ma con il rischio di divenire inconsapevolmente strumento di governance del lavoro. E allora? Personalmente continuerò a fare quello che ho sempre fatto: agire, riflettere e indagare, ma conscio che la fase attuale ci obbliga a un cambio di passo, a liberarci da lacci e lacciuoli ideologici, a essere meno depressi. Abbiamo una nuova idea di anti-potere da indagare, proporre e diffondere!
DOPO LA NOEXPO MAYDAY, VERSO #ALTEREXPO – NoExpo.org
Nella giornata del primo maggio, nella Milano di Expo 2015, mentre la politica e le multinazionali celebravano l’apertura dell’esposizione, un corteo di oltre 50mila persone ha sfilato per le vie di Milano.
La MayDay parade 2015, il tradizionale I maggio dei precari, è stata declinata quest’anno in una prospettiva di opposizione ad Expo: acceleratore di dinamiche di precarizzazione, rasponsabile di devastazione e saccheggio del territorio, matrice di debito pubblico.
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Un corteo composito quello che ha attraversato le vie di Milano: l’internazionale delle bande musicali, i comitati che si oppongono alla predazione del territorio, i lavoratori e le lavoratrici della Rimaflow, la rete di produttori di Genuino Clandestino, i movimenti di lotta per la casa, gli studenti e le studentesse, i precari e le precarie che non hanno rappresentanza, uno spezzone ampio del mondo del lavoro, gli antispecisti, la rete NoExpo Pride, i sindacati di base, le opposizioni all’ interno delle organizzazioni confederali e le sigle della sinistra radicale. Tutte queste componenti hanno portato a termine il corteo in forma organizzata, attraverso pratiche comunicative per segnalare le nocività di Expo. I sette anni che hanno caratterizzato la storia della Rete non possono essere ridotti alla strumentalizzazione mediatica e politica di alcuni momenti del corteo, che ne hanno sovradeterminato l’impostazione collettiva e che poco hanno a che vedere sia con un’espressione di rabbia spontanea, sia con lo stesso percorso No Expo. Come abbiamo sempre fatto, ripartiremo dai nostri contenuti: lo abbiamo dimostrato con la pedalata di ieri, 2 maggio, che ha portato gli attivisti a girare attorno al sito Expo, nella penuria dei suoi visitatori, e con il pranzo popolare davanti a Eataly, che ha riempito Piazza XXV Aprile con il cibo di piccoli produttori agricoli, il suono delle bande musicali e la clown army. Non siamo nè opinionisti nè giudici: di fronte alle dichiarazioni che evocano inasprimenti repressivi fino all’ introduzione di daspo per future manifestazioni, noi possiamo dire con fermezza che nessuno sarà lasciato solo. Abbiamo aperto una stagione di sei mesi contro ed oltre il grande evento, che passerà dal No Expo Pride del 20 giugno, rivendicando il diritto ad una città femminista, frocia e queer, e dall’ assemblea nazionale prevista per la giornata del 3 maggio che sarà riconvocata a breve.
EXPO, teppisti figli di papà e strategia della distrazione di Giovanni Maria Riccio
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La prima regola di Chomsky sulla manipolazione e il controllo sociale da parte dei mass media è la strategia della distrazione: si inonda il pubblico con un’alluvione di notizie insignificanti per deviare l’attenzione dai problemi reali.
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La storia è piena di esempi: chi non ricorda – in un periodo di revival di Mani pulite – il “decreto salvaladri” voluto dall’allora ministro della giustizia Alfredo Biondi? Eravamo nel luglio del 1994, all’alba del primo governo Berlusconi e nel pieno dei mondiali di calcio americani, alla vigilia della semifinale Italia-Bulgaria. Concentrati sul codino di Roberto Baggio, pensarono che avessimo già dimenticato il pool milanese.La storia si ripete e ieri siamo annegati sotto le immagini di una città devastata dai manifestanti contrari all’Expo 2015. Vandalismo previsto e prevedibile, che ha confermato, ancora una volta, l’inadeguatezza di chi dovrebbe garantire l’ordine pubblico nel nostro Paese e ha avallato le tesi di chi sostiene che siano gli stessi governanti a godere di questi avvenimenti. L’inciviltà ripresa da ogni angolazione da mass media e social network e rilanciata all’infinito, ingigantendo e, al tempo stesso, svuotando di senso ogni messaggio.Da una parte, i poliziotti (per tradizione poveri e malpagati), dall’altra – per usare le ricercate parole del nostro premier – i “teppistelli figli di papà”: il frammento di lotta di classe di pasoliniana memoria è un passpartout buono per ogni occasione. Una lettura elementare e lineare, ottima per un popolo allergico agli approfondimenti.Siamo una nazione fondata su patria e famiglia: perché evocare i (figli di) papà e dimenticare le mamme? Ecco allora la mamma di Baltimora, nuovo idolo del popolo dei social network. Perché le nostre mamme non vanno a riprendersi i figli in strada invece di passare il tempo a farsi i selfie in bagno? E questi figli che hanno troppi soldi, troppi iPhone, troppe Playstation! Noi sì, la nostra generazione sì che aveva degli ideali! I fratelli Cervi, dove sono i fratelli Cervi? Un calderone senza confini, che ricorda più la madre di Robertino che quella di Baltimora.Le immagini, condivise da tanti, stimolano l’emotività più che la riflessione, creano un “un corto circuito su un’analisi razionale” e sul “senso critico dell’individuo” (è questa la sesta regola di Chomsky). Aprono la porta ai sentimenti peggiori: qualcuno, la cui frettolosa impulsività scivola nella retorica reazionaria, invoca la Diaz, quasi che la pagina più buia dell’ultimo decennio della nostra democrazia possa essere elevata a modello.Le posizioni si radicalizzano e, in un Paese ancorato ai Guelfi e ai Ghibellini, si può essere solo da una parte della barricata. Nessuna analisi compiuta, nessuna sfumatura; meglio i ragionamenti di panza che quelli di testa, meglio indignarsi per ragazzini incappucciati che, parafrasando Moretti, pensano, parlano e vivono male. Se non sei con noi (che siamo i buoni), sei un gufo, sei amico dei teppisti.Improvvisamente cala l’oblio su Farinetti e sui discutibili appalti affidati a Eataly, sui ritardi nei cantieri, sui padiglioni di Coca-Cola e McDonald’s, sulla gestione inutilmente decorativa del nostro patrimonio culturale. Il palcoscenico è rapito da quella che, giustamente, è stata definita la pornografia della devastazione, dove il solo e unico tema di discussione diventano i teppisti, che rovinano l’immagine del Paese più bello del mondo, della capitale morale d’Italia. Viva la retorica, le maestre facciano ricopiare cento volte agli scolari le belle parole del nostro premier: “Oggi inizia il domani di un Paese che ha un passato straordinariamente bello da far venire i brividi ma che ha voglia di futuro”. Teniamoci per mano patriotticamente e, patriotticamente, intoniamo il nuovo inno d’Italia, nella versione che ci vuole pronti alla vita, giovani, belli, con un inglese un po’ stentato (ma quanto ci rassicura questo premier, nostro coetaneo, che ostenta le sue mediocrità?). Anzi, sostituiamolo questo vecchio inno: i leghisti, anni fa, proponevano “Va, pensiero”, io rilancio con il motivetto di Seven Nation Army. Forza Matteo, canta con noi: pooo-po-po-po-po-pooo-po!E voi, amici di Facebook, follower di Twitter, seguaci e adepti, continuate pure a condividere il video di un ragazzino afasico, che prova a spiegare, tra mille cioè, i perché di un dissenso. In fondo, perché dovremmo sforzarci di capirne qualcosa di più e cercare la luna, nascosta tra tante nubi? Continuiamo pure a guardare il dito, è più vicino.P.S. Noam Chomsky ha da tempo rubato a Marshall McLuhan il poco invidiabile primato di studioso citato a vanvera. In parte, anche nel post che avete appena letto. Capisco che siamo solo a maggio, ma prometterci di leggere più Chomsky e passare meno tempo su Facebook potrebbe essere un buon proposito per l’anno nuovo. Anche per capire meglio i post dei nostri amici.
Connessioni Precarie
Il primo maggio è passato, lasciando dietro di sé qualcosa di più delle macchine bruciate, delle vetrine rotte, degli abiti neri abbandonati per strada. Oltre all’Expo trionfalmente aperta, il primo maggio lascia dietro di sé l’immagine plastica di un movimento che, nonostante sia riuscito a mobilitare 30.000 persone per la Mayday, si scopre politicamente impotente.
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Alla fine è successo quello che tutti prevedevano, anche se molti avevano detto di volerlo evitare: la logica dell’evento si è imposta su quella del processo, della costruzione, dell’accumulazione e della condivisione di forza. Ora scoprire che i media mainstream si comportano da media mainstream è quanto meno fuori luogo. Ora il botta e risposta contabile sui costi di Expo paragonati ai costi dei danneggiamenti lascia francamente il tempo che trova. Ora risolvere tutto facendo appello alle ragioni della spontaneità arrabbiata è quanto meno insufficiente. Ciò che è successo non può essere risolto grazie a un’estetica del riot che non riesce a coprire i limiti collettivi di progettualità politica, anche perché la definizione corrente di riot si avvicina sempre più pericolosamente a quella di una rivolta magari intensa, ma istantanea e destinata a essere riassorbita senza particolari problemi dall’oggettiva e dispotica supremazia militare e simbolica dello Stato. Se il riot esiste solo nel giorno in cui avviene, a cosa serve il riot? Sarebbe però limitativo ricondurre i limiti di azione politica che si sono mostrati in piazza solo a ciò che è successo in piazza. Forse vale la pena ripensare l’intero discorso prodotto per l’occasione dell’Expo negli ultimi mesi. A noi pare evidente che se, di fronte allo slogan «Nutrire il pianeta», la risposta è il veganesimo coatto di certi centri sociali, difficilmente si riesce a opporre un discorso globalmente efficace alle chiacchiere edificanti che scorrono e scorreranno attorno all’Expo. Evidente è invece la difficoltà di produrre un discorso politico all’altezza dell’occasione. Il movimento italiano sembra pagare un suo specifico e presuntuoso provincialismo rispetto al quale non è riuscita a stabilire un contrappeso significativo nemmeno la presenza attiva all’interno di reti internazionali, come è stata per molti di noi l’esperienza di Blockupy per la contestazione della Bce a Francoforte. Sarebbe necessario, infatti, cogliere l’occasione dell’Expo, in modo da sollevare e far agire argomenti in grado di opporsi pubblicamente alla celebrazione del cibo come merce globale. Invece non siamo riusciti finora nemmeno a lasciar intravedere un punto di vista precario, migrante e operaio oltre che sullo sfruttamento del lavoro dentro all’Expo, anche su un tema che non riguarda solamente come si mangia in Italia o in Europa, ma anche e soprattutto chi mangia, quanto e quando in molte altre zone del mondo. Sarebbe letale prendere sul serio i proclami altisonanti di Renzi, che vogliono a tutti i costi fare dell’Expo una questione italiana. Abbiamo invece assistito a proposte e dibattiti su come dovrebbe essere Milano in questi sei mesi, su come ci si dovrebbe comportare nel cortile di casa, sulla dieta politicamente più appropriata. Il tema della città è oggi certamente centrale, ma lo è nella sua scala globale, non nel qui ed ora delle singole identità cittadine. Il grande capitale multinazionale costruisce una vetrina mondiale, coloratissima e frequentatissima, per dire che sì, c’è magari qualche problema, ma che a breve darà da mangiare a tutti. Noi, che non abbiamo nemmeno approssimato un discorso realistico sulla questione globale della riproduzione materiale dell’esistenza di alcuni miliardi di poveri, precari, migranti e operai, scambiamo quattro vetrine del centro di Milano per le vetrine «simbolicamente» più rilevanti. Che poi le vetrine prescelte e le azioni compiute siano sempre le stesse da anni, la dice lunga sull’indifferenza per un’occasione che dovrebbe invece essere colta, proprio per la sua complessità e per il suo carattere immediatamente globale. Non stupisce dunque che ora, dopo la Mayday, ci troviamo a cercare il giusto equilibrio tra conflitto e consenso, in un modo che però rischia implicitamente di separarli. Ci sono alcuni che praticano il conflitto, per una rabbia più profonda o per una maggiore intensità politica, e altri che non lo fanno. Non si capisce bene se questi ultimi si trovino in una sorta di anticamera della lotta, dalla quale possono imparare come ci si dovrebbe comportare, o se invece sono ridotti semplicemente alla platea che dovrebbe approvare i comportamenti altrui. Parlare di consenso e conflitto ha senso nella misura in cui si sovrappongono quotidianamente e non vengono evocati solamente quando riguardano i comportamenti di piazza. Riservare il conflitto allo scontro con la polizia, con le vetrine e con le macchine non restituisce nemmeno lontanamente il livello di violenza e i sordi livelli di conflitto che si dispiegano quotidianamente nei luoghi di lavoro, sulle vie delle migrazioni e nei quartieri. Una violenza e un conflitto che non sono solo subiti passivamente, ma anche praticati con intelligenza e continuità. L’idea che un po’ di violenza di piazza possa servire da innesco a chissà quale presa di coscienza collettiva, così come quella che l’insorgenza di piazza sia l’unica forma possibile di espressione collettiva per le esperienze esistenti, sono semplicemente infantili. Il conflitto nelle piazze non può essere la rappresentazione esemplare di una conflittualità che si considera altrimenti assente o insufficiente. In questo caso saremmo di fronte all’espropriazione della possibilità di azione di massa e anche all’impossibilità pratica di costruire forme di conflittualità condivise.D’altra parte anche sostenere che chi rompe tutto lo fa per una spontanea e incontrollabile rabbia, senza la pretesa di rappresentare nessuno, non si accorge che una simile individualizzazione dei comportamenti finisce per essere il rovescio, l’opposto simmetrico, dei comportamenti assolutamente individuali che il neoliberalismo pretende da ognuno di noi. Non è forse il caso di rompere con la condizione quotidiana di isolamento, invece di rappresentarla fedelmente anche durante le manifestazioni collettive? Ma già ragionare a partire da questa spontanea individualizzazione non coglie tutta la portata del problema. Qualche mese fa, prima dell’assedio e dei blocchi di Francoforte, è uscito un documento che annunciava il fallimento del movimento no-global e l’inutilità di ogni tentativo di costruire reti organizzative transnazionali, declassate direttamente a «reti solidali», così come chiunque provava a organizzarle era bollato come burocrate e con il marchio d’infamia di voler essere «ceto politico di movimento». Ecco, secondo noi la differenza sta esattamente qui. Ed è a partire da questa differenza che ognuno deve assumersi le proprie responsabilità politiche. Qui non si tratta di dividere i buoni dai cattivi e nemmeno gli arrabbiati dai pavidi. Qui si tratta di evidenziare, e in caso discutere, una specifica differenza di prospettiva politica. Qui si tratta di dire chiaramente che c’è chi pensa che sia necessario costruire quotidianamente connessioni dentro le lotte e le molteplici figure che in esse si esprimono, anziché replicare attivamente l’individualizzazione altrimenti imposta. Qui si tratta di stabilire collegamenti non tra la propria singolare quotidianità e il riot di un giorno, ma tra le molteplici e disomogenee singolarità che ogni giorno sono costrette dentro e contro il lavoro precario operaio e migrante. Qui si tratta di ribadire che tutto questo non è possibile su un piano locale e che ladimensione europea è il suo minimo piano di sviluppo. Qui non si tratta dell’espressione immediata di un’identità sovversiva, ma dell’assenza di ogni identità consolidata e della difficoltà quotidiana per trovare forme collettive di espressione. Qui non si tratta di far esprimere qualcosa che già c’è, ma di costruire lo spazio per qualcosa che ancora non c’è, proprio perché ancora non riesce a trovare una forma collettiva di espressione. Noi pensiamo che questo sforzo verso il collettivo sia il primo punto all’ordine del giorno. Altri non lo pensano e si comportano di conseguenza. Sarebbe perciò il caso di smetterla con la facile critica dei giornali, con gli opinionisti occasionali che sono bravi quando ti danno ragione e canaglie quando ti danno torto, con il gioco incrociato delle citazioni. Sarebbe il caso di parlare seriamente delle prospettive politiche che si vogliono perseguire. Tutto il resto rischia di essere poco interessante e persino indifferente per i moltissimi che condividono la nostra condizione.
Il Primo Maggio tra “non più” e “non ancora” da Communia.net
Vorremmo aprire con questo articolo una riflessione su questo primo maggio e sulle strategie che i precari dei grandi centri della logistica e del consumo possono mettere in campo per incepparne i meccanismi.
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Quest’anno noi del collettivo La Boje! abbiamo deciso di concentrarci sulla costruzione locale della MayDay milanese, che da anni prova a mobilitare migliaia di precari attorno alla rivendicazione di un reddito garantito e alla performance della parata. EuroMayDay da più di dieci anni, pur con diversi rivoli e tempi di produzione teorica, riunisce quell’anima dell’opposizione sociale che non può chiedere “più lavoro”, come fanno i sindacati confederali, ma anzi rivendica forme continuative e garantite di reddito. Negli ultimi due anni in occasione del primo maggio abbiamo partecipato ai presidi davanti i grandi esercizi commerciali, rendendo possibili, i “rallentamenti del consumo” di fronte alla città della moda (poco efficace) e all’oviesse (molto efficace). Aggiungiamo anche che l’anno scorso eravamo presenti al pranzo solidale della Burgo. Pur non avendo partecipato al presidio, non siamo contrari alla campagna di subvertising e solidarietà organizzata in contrasto all’evento musicale del primo maggio all’outlet “fashion district” di Bagnolo San Vito. Al contempo sottolineiamo che la collocazione e l’artificialità del fashion district, che rappresenta un centro storico finto (con tanto di portici) e privatizzato dove fare acquisti, aggiunge l’ elemento strategico della maggiore difficoltà di impedire il consumo lì piuttosto che nel centro di Mantova. Tuttavia abbiamo ritenuto più opportuno in questo primo maggio partecipare alla Mayday e ai successivi giorni di confronto e workshop, nell’ambito dell’occupazione temporanea the #ned (no Expo days), anche in continuità con l’esperienza di Share-spazio condiviso, alla quale abbiamo dato vita nello scorso ottobre con tre giorni di incontri, presentazioni di libri e momenti di socialità e attraverso la quale abbiamo rivendicato la necessità di condividere spazi per sottrarsi all’alienazione lavorativa, alla commercializzazione del tempo libero e delle relazioni umane e alla cementificazione dei quartieri in cui viviamo, processo analogo a quello che sta accadendo su grande scala a Milano in occasione di Expo. Partecipare a questi tre giorni di workshop è stato utile poiché il tema della precarietà, o peggio della gratuità della prestazione lavorativa, si lega con la speculazione edilizia stimolata da Expo (che si avvarrà di 18mila volontari/stagisti non pagati, grazie all’accordo firmato da Comune di Milano, CGIL-CISL-UIL e Expo spa). Certo la lotta a Expo2015 apre diversi fronti di lotta, per la sua natura allo stesso tempo pubblicitaria e materiale, dai tentativi di pinkwashing dello spazio urbano, alle ingerenze nella libera circolazione dei saperi, ma l’aspetto che ci è parso peculiare, poiché intersezione tra lotte in difesa del territorio e del lavoro, è la definizione degli spazi urbani che le persone vivono. Il ragionamento parte da una riflessione su cui ci confrontiamo da mesi: se la classe operaia fordista è in via di estinzione, non diventa il territorio, caratterizzato da una distribuzione diseguale di risorse, quel comune denominatore che sollecita processi di consapevolezza comune tra una massa di persone? Come si può dare una coscienza di classe in assenza di quel legame tra il lavoro e la definizione di un’identità sociale? Difficile identificarsi in occupazioni flessibili dominate da relazioni competitive tra colleghi. Arduo riconoscersi nella stessa situazione di chi ha (o meglio aveva) protezioni sindacali, concertazioni tra le parti sui contratti nazionali e ammortizzatori sociali. Le scelte dei governi italiani degli ultimi 25 anni di indirizzare la flessibilità del lavoro, richiesta dai rischi del mercato mondiale e dalle dottrine neo-liberiste, unicamente contro giovani, donne e poco qualificati, ha prodotto una frattura tra la nuova manodopera precaria e quella indeterminata. Le fasce più deboli sono state messe in competizione, con il risultato che non si è riusciti a produrre nessuna mobilitazione comune, nemmeno durante la crisi, tra garantiti e non garantiti. Ne usciamo con una riduzione consistente del peso della classe operaia classica che, nonostante la forte sindacalizzazione in alcuni settori produttivi, non è riuscita a legare le vertenze contro le chiusure delle fabbriche a parole d’ordine che muovessero tutti. Non per niente chi è riuscito a resistere in questi anni, l’ha fatto creando piattaforme sociali che portassero un insieme di critiche e proposte più radicale e generale della mera richiesta di lavoro. Come dire che il semplice “ritorno al passato” non significa nulla per chi, precario da qualche anno, quel sistema di tutele e diritti non l’ha mai percepito. O peggio veniva considerato una “variabile strutturale”, a protezione dei lavoratori indeterminati, dagli stessi sindacati nelle fabbriche. Il primo maggio a Suzzara, in piazza, gli stessi sindacati confederali chiedevano “lavoro”. E il lavoro ce lo daranno, un bel lavoro di merda, con un salario di merda e nessuna possibilità di costruire un proprio futuro. Sull’altro versante, infatti assistiamo all’accelerazione del job act, che fornisce maggiori possibilità ai padroni di maneggiare la forza lavoro dei precari a loro piacimento. Questo in un paese che ha i più bassi salari d’Europa, una disoccupazione giovanile intorno al 40% e la completa mancanza di forme serie, non diciamo di continuità di reddito, ma quantomeno di sussidio alla disoccupazione. Tornando a quello che la Gazzetta di Mantova ha definito “sciopero flop” all’outlet ci sembra utile sottolineare un paio di aspetti. In primo luogo non possiamo considerare più i sindacati confederali come degli agenti neutri nelle lotte che si danno. Le influenzano a monte, poiché le segreterie sono coinvolte sia a livello nazionale sui contratti, che a livello locale sulla stipulazione di accordi commerciali. Le caratterizzano però anche a valle, intervenendo tardivamente, meccanicamente, senza alcuna conoscenza delle lotte nei grandi iper-mercati degli Stati Uniti (un esempio), modellando la strategia di lotta dei lavoratori attorno alle consuetudini del lavoro dei delegati sindacali. Peccato che non ci possa essere concertazione senza rapporti di forza favorevoli ai lavoratori, e questi non si creano con il presidio nostalgico del primo Maggio. Non per niente spesso i lavoratori di questi settori esprimono immediatamente rivendicazioni molto più radicali dei sindacati. Che semmai hanno il ruolo di impantanare la discussione sul fatto se sia meglio aprire per pasqua o pasquetta. Non abbiamo una soluzione precisa, ma una serie di immagini suggestive da proporre nel confronto con la sinistra plurale cittadina. Non vogliamo fare lezioncine, ma proporre dei temi di discussioni ai soggetti politico sociali con cui ci sono delle affinità. I precari di questi centri spesso lavorano insieme solo per pochi mesi, ma al contempo la precarizzazione parziale e selettiva operante in Italia fa sì che molti continuino a ruotare intorno agli stessi ruoli (magari in un altro supermercato). Il cosiddetto entry level da cui non si esce più. Servirebbe quindi un luogo o uno strumento flessibile e informale attraverso cui possano discutere e organizzarsi. In secondo luogo il problema di questi lavori nei grossi centri del consumo interroga i tempi di vita in un senso doppio: se da un lato estende la prestazione lavorativa nelle ore e nei giorni festivi, dall’altro i precari non hanno un “living wage”, ovvero un salario che permetta loro di pianificare una vita, comprarsi una casa, avere dei figli etc. Varrebbe la pena insistere su una rivendicazione qualitativa (per esempio quale salario è adatto ad una vita degna, non mercificata?) che metta in discussione la compressione del costo del lavoro, come soluzione per uscire dalla crisi. Un reddito sociale (che non sia mero ammortizzatore) può essere una richiesta che libera tutti e fa interrogare tutti sul reale ruolo e valore del lavoro e sulle enormi disuguaglianze nell’accesso e nel controllo delle risorse. L’ultima immagine è rispetto la strategia scelta: saranno dei sindacati poco presenti, a dover rincorrere le aperture fissate da fashion district con presidi solidali o piuttosto i lavoratori attivi quotidianamente a mettere in pratica forme di sabotaggio collettive durante i momenti di maggiore incasso e affluenza per i controllori privati del centro commerciale di Bagnolo? Solo ragionando sulla composizione di classe e sui rapporti di forza che costruisce questa possiamo produrre convergenze di classe, altrimenti l’unione diventa di una sinistra culturale anti-consumista, non di classe. Ripetiamo, non ci sembra negativo il presidio e le azioni solidali, ma per ribaltare la tavola pensiamo che valga la pena ragionare sulle direzioni da investigare e le energie da impiegare. Aggiungiamo quindi l’ultimo elemento, ovvero i proletari (non sonnambuli) ad assistere al concerto di Arisa. Non ce la possiamo prendere con questi, perché sono gli stessi che vorremmo aiutare a ribellarsi. Piuttosto andrebbe portato alle estreme conseguenze il ragionamento sulla delocalizzazione produttiva in Asia e nelle periferia Europea (a meno che non vogliate abbassarvi lo stipendio come in Polonia come proposto da Elettrolux). Il cambiamento ha portato ad un aumento del lavoro nei servizi (in diversi casi fittizio, ma comunque labour intensive) e al passaggio dalla centralità della produzione, a quella del consumo e della distribuzioni di merci. Non per niente l’amministrazione Obama spinge sulla ratifica del TTIP ovvero la costituzione di un spazio unico per il commercio e il libero scambio tra Europa e Usa, che agevolerà le multinazionali a spese delle popolazioni. Il capitalismo per affermarsi ha bisogno di convincere, e non esiste società dei consumi senza la diffusione di comportamenti sociali indirizzati al consumo. Ci fa schifo pure a noi il consumismo, ma non possiamo semplicemente disprezzare questi comportamenti sociali egemonici. Infatti questi modelli di diffusione del consumo nel tempo e nello spazio, a ben vedere, non sono feticci del sistema, ma aspetti vitali per la riproduzione di quest’ultimo. Individuarne le debolezze e i punti di volta di questa forma di capitalismo (pur ricordando che nelle zone produttive del pianeta i nostri compagni conducono intense lotte come in Cina e Bangladesh) non sarà sicuramente un passaggio immediato o una fase priva di aspri contrasti, ma il passaggio verso una nuova coscienza di classe passa per sentieri molto pericolosi.