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Ripubblichiamo questo articolo di George Monbiot per Internazionale.it

 

Ribelliamoci a chi dice che la società non esiste

Una donna entra in un centro commerciale. Contempla gli scaffali e le cataste di roba, la musica melliflua, i cartelli dei prezzi, i clienti che si aggirano svogliati tra gli scaffali ed è spinta a gridare: “Ma è proprio tutto qui?”. Un commesso le si fa incontro da dietro la sua cassa: “No signora, può trovare di più nel nostro catalogo”.

Questa è la risposta che ci è stata data per ogni cosa: l’unica risposta. Possiamo aver perso i nostri legami, le nostre comunità e il senso di cosa è importante e di quali sono i nostri obiettivi, ma ci saranno sempre altri soldi e altri oggetti con cui sostituirli. Adesso che la promessa è svanita, diventa chiara la grandezza del vuoto che ci circonda.

Non è che i vecchi tempi fossero necessariamente migliori: erano cattivi in modo diverso. Le gerarchie di classe e sesso annichiliscono lo spirito umano in maniera non meno efficace dell’atomizzazione. Il punto è che il vuoto che è stato riempito con oggetti senza valore avrebbe potuto essere rimpiazzato da una società migliore, costituita sul sostegno reciproco e sulle relazioni, senza l’opprimente stratificazione sociale del vecchio regime. Ma il consumismo ha agevolato e poi cooptato quei movimenti che hanno contribuito a distruggere il vecchio mondo.

L’individualismo, una risposta necessaria a un conformismo oppressivo, viene facilmente sfruttato. Nuove gerarchie sociali costruite intorno agli status symbol e al consumo di massa hanno preso il posto di quelle vecchie. Il conflitto tra individualismo ed egualitarismo, troppo prontamente ignorato da quanti hanno contribuito a vincere norme e costrizioni oppressive, non si risolve da solo.

Eccoci dunque smarriti nel ventunesimo secolo, in uno stato di disgregazione sociale che forse nessuno ha desiderato ma che è un comportamento sempre più diffuso, in un mondo che si affida alla crescita dei consumi per evitare il crollo economico, saturo di pubblicità e retto dal fondamentalismo dei mercati. Viviamo in un pianeta che i nostri antenati avrebbero trovato impossibile immaginare: sette miliardi di persone alle prese con un’epidemia di solitudine. È un mondo che abbiamo creato, ma non scelto.

Oggi appare chiaro che il banchetto al quale siamo stati invitati è solo per pochi.Statistiche pubblicate la settimana scorsa mostrano che, nel Regno Unito, i salari sono più bassi di tredici anni fa. Due settimane fa l’organizzazione non governativa Oxfam ha rivelato che l’1 per cento più ricco della popolazione possiede ormai il 48 per cento della ricchezza mondiale: entro l’anno prossimo possiederà più di tutto il resto degli abitanti messi insieme. Lo stesso giorno un’azienda austriaca ha svelato il suo progetto per un nuovo super yacht. Costruito sullo scafo di una petroliera, sarà lungo 280 metri e avrà undici ponti, tre eliporti, vari cinema, sale concerti, ristoranti e auto elettriche per portare il proprietario e i suoi ospiti da un lato all’altro della nave, oltre che una pista da sci di quattro piani.

Nel 1949 Aldous Huxley, sostenendo la maggiore credibilità della propria visione distopica, scrisse a George Orwell. “Il desiderio di potere può essere perfettamente soddisfatto sia convincendo la gente ad amare il proprio asservimento che spingendoli all’obbedienza con calci e frustate. […] Il cambiamento sarà il risultato di una necessità condivisa di maggiore efficienza”. Credo che avesse ragione.

Il consumismo non si concilia con l’idea di un obiettivo comune: o paghi le tasse o spendi quei soldi per una nuova auto. Soffoca i sentimenti e attenua il nostro interesse per gli altri. La libertà di spendere sostituisce altre libertà, come mangiare il loto ci permette di dimenticare le nostre perdite. La maggior parte delle forme di protesta pacifica sono oggi vietate, ma nessuno ci impedisce di esaurire le risorse dalle quali dipenderanno le generazioni future. Tutto ciò aiuta gli oligarchi globali a creare dei buchi nella rete di sicurezza sociale, a trarre vantaggio dai limiti sia della democrazia che della tassazione e infine a soffocare e privatizzare il nostro pubblico benessere.

Così come la società umana è stata mandata in frantumi dal consumismo e dal materialismo, che ci hanno spinto verso un’epoca di solitudine senza precedenti, anche gli ecosistemi sono stati fatti a pezzi da quelle stesse forze. È la mentalità capitalistica, diffusa ormai su scala globale, che oggi ci minaccia di catastrofi climatiche, avvicina una sesta estinzione di massa, mette in pericolo le risorse idriche e impoverisce il suolo da cui dipende tutta la vita umana.

Ma io non credo che l’accettazione dell’asservimento immaginato da Huxley sia uno stato permanente. La stagnazione dei salari, la brutalità delle nuove condizioni di lavoro, la rottura del legame tra risultati scolastici e avanzamento sociale, l’impossibilità per molti giovani di trovare un alloggio dignitoso, tutti questi fenomeni ci spingono a porci la domanda che poteva essere rimandata solo in momenti di generale aumento della prosperità: ma è proprio tutto qui?

Come suggerisce la crescita di Syriza e Podemos, non possiamo creare movimenti politici per affrontare questi problemi se non costruiamo anche una società. Non è abbastanza spingere le persone a cambiare il loro credo politico: dobbiamo creare non solo comunità d’interesse ma anche comunità di mutuo soccorso capaci di offrire la sicurezza, la sopravvivenza e il rispetto che lo stato non fornirà più.

In una notevole serie di riflessioni che si estendono oltre la sua abituale concisione, la rete Friends of the Earth ha cominciato a esplorare i modi in cui potremmo ricominciare a stabilire dei legami, con ciascuno di noi e con il mondo naturale. Sta per esempio cercando nuovi modelli di vita urbana basati sulla condivisione piuttosto che sul consumo competitivo: la condivisione non solo di auto, elettrodomestici e utensili ma anche di denaro (attraverso il credito cooperativo e la microfinanza) ed energia. Questo significa un processo decisionale gestito dalle comunità locali per quanto riguarda i trasporti, la pianificazione e forse anche il prezzo degli affitti, i salari minimi e massimi, i budget municipali e le imposte.

Queste iniziative non sostituiscono l’azione governativa: come la “big society” di David Cameron, non hanno senso se manca l’assistenza dello stato ma possono riunire le persone, creando un sentimento condiviso su obiettivi, proprietà e mutuo sostegno che un processo decisionale centralizzato non potrà mai garantire.

Friends of the Earth sostiene anche la “rivoluzione dell’empatia” promossa dallo scrittore Roman Krznaric, oltre all’idea di un’istruzione che duri tutta la vita e che potrebbe contrastare l’insegnamento sempre più limitato che ormai viene inflitto ai nostri figli e il cui obiettivo è quello di preparare le persone a dei lavori che non avranno mai, mettendoli al servizio di un’economia che funziona a vantaggio di altri.

In queste idee e movimenti intravediamo il barlume di una possibile risposta alla domanda: no, non è proprio tutto qui. Ci sono anche dei legami. Nonostante i migliori sforzi di quanti credono che non esista una cosa chiamata società, non abbiamo perso la nostra capacità di metterci in relazione con gli altri.

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