Nelle ultime 3 settimane, a Milano a centinaia di migliaia siamo scesi in piazza. Senza fermarci e surfando sulle onde, in movimento, abbiamo scattato alcune istantanee, per meglio segnare la rotta.
Se il governo è verde-giallo, Milano è fucsia-oro
Sabato 2 marzo oltre 200.000 persone hanno mostrato il volto di una città ribelle al razzismo, il 7 e l’8 marzo in decine di migliaia hanno urlato forte la rabbia per ogni forma di violenza contro le donne e di genere.
La partecipazione si è espressa in entrambe le occasioni attraverso numeri davvero impressionanti, ma ciò che più di tutti è interessante è la composizione del blocco sociale che in entrambe le occasioni è stato protagonista: una milano meticcia e giovane che dai momenti di piazza alle micro-relazioni quotidiane sta ridefinendo i parametri della soggettività e della normalità.
Non è esistita una manifestazione antirazzista divisa come in un compartimento stagno da un’altra antisessista, ma due occasioni importanti in cui abbiamo ribadito con diversi accenti la potenza dell’intersezioni di rivendicazioni di libertà.
Il 2 marzo in piazza c’era la Milano solidale che non può restare indifferente ai respingimenti e alla chiusura dei porti (tanto oggi con Salvini quanto ieri contro Minniti), ma c’era soprattutto la Milano meticcia che afferma con forza la propria resistenza e la propria esistenza.
Le 200.000 persone del 2 marzo corrispondono alla manifestazione di un tessuto sociale coltivato da decenni da collettivi, associazioni, scuole di lingua, ambulatori medici, sportelli legali, comunità migranti che costruiscono solidarietà in un tessuto urbano in cui il concetto stesso di migrante è inutile a capire la condizione di più di un terzo della popolazione.
Vista l’assenza dello ius soli la stessa distinzione tra italiani e non italiani perde di senso semantico e sostanziale ogni anno di più e lo stridente contrasto con politiche di discriminazione razzista e razzializzazione non possono che generare un senso di ingiustizia al limite del paradosso.
Perché quel ragazzo biondo di seconda C può prendere la metro tranquillamente mentre la sua compagna di banco più scura rischia di arrivare in ritardo a scuola per un controllo in stazione Centrale? Perché mezza classe può partecipare al viaggio di istruzione all’estero, mentre l’altra metà sta ancora aspettando il rinnovo del permesso di soggiorno? Perché qualcuno festeggia con gioia i 18 anni, mentre qualcun altro deve mettersi in coda all’Ufficio Immigrazione della Questura? E ancora: Perché a Lodi una preside si permette di lasciare mezza scuola senza pranzo? Perché un funzionario delle poste caccia in malo modo una signora somala? Perché un’infermiera augura la morte a un paziente di origine ivoriana? Perché un Professore obbliga un bambino di colore a stare in piedi contro il muro schernendolo per il tono della pelle?La risposta più interessante forse sta nella reazione dei i compagni di classe del ragazzino insultato in aula dal suo professore: lo hanno difeso sostenendo di essere “tutti uguali”.
A Milano la normalità non è certo plasmata sul mito della purezza della “razza” o della comunità. A milano la “normalità” è il risultato sempre inedito del processo di soggettivazione meticcia.
Siamo meticci. Sappiamo bene però che siamo tutti uguali nella stessa misura in cui siamo tutti diversi. Ciascuno di noi è vulnerabile, di fronte alla precarietà, alla mancanza di prospettive, alla povertà, ma qualcuno di noi è esposto più di altri alle leggi ingiuste e razziste, alle norme sessiste.
Alle porte dello sciopero globale femminista dell’8 marzo, la piazza antirazzista ha sottolineato chiaramente che la scomparsa dei permessi umanitari pesa in maniera devastante sulle spalle di chi sfugge da condizioni individuali di violenza e persecuzione dettate dal sesso e dal genere. Numerose voci hanno ribadito come legare il permesso di soggiorno allo stato di famiglia sia una vera e propria ipocrisia in un paese come l’Italia, dove l’80% delle violenze contro le donne avviene tra le mura domestiche. Canzoni e cartelli hanno portato al centro dell’attenzione le brutalità dello stupro e della tratta favorite dai respingimenti, dai porti chiusi, dall’esternalizzazione delle frontiere, dal finanziamento di dittatori e bande armate.
Una settimana dopo, il corteo dell’8 Marzo è iniziato con un mare di coperte dorate sventolate sulle teste delle 20.000 persone scese in piazza contro ogni forma di violenza e discriminazione di genere, mentre dal camion donne e ragazze del Comitato Abitanti di San SIro raccontavano in inglese, francese, arabo, spagnolo e portoghese perchè la rete Non Una Di Meno lotta contro la violenza di ogni genere e confine.
Pink attack o faccetta nera?
Un episodio spiega bene come il discorso che facciamo sia incarnato nella pelle della città, nei bisogni, nei desideri e nella rabbia della stessa generazione: giovanissima e intersezionale.
La statua di Indro Montanelli, vergognosamente innalzata addirittura nel 2002 in onore di un fascista mai pentito, arruolatosi volontariamente, attratto dal fascino della conquista, che mai mostrórimorsi per aver comprato una moglie bambina, costretta ad avere rapporti con lui in tenera età.
Una provocazione permanente e intollerabile nella milano meticcia e femminista.
Il dibattito pubblico va decisamente al di la di qualche litro di vernice su un pezzo di ferro: tocca nel vivo nodi irrisolti della nostra storia di “italiani brava gente”, ma soprattutto porta alla luce le contraddizioni legate ai nodi della soggettivazione e della percezione di sè e della normalità.
Un’opinione pubblica di maschi, bianchi, over 50, potenti, caratteristiche che Montanelli ha in comune con molti di coloro che lo difendono avverte della “stupidità” di giudicare i morti “con il senno del poi”: si tratta di una normalità che non ha ragione di scandalizzarci.
Ma chi sono i portatori di questa normalità, in cui la storia è quella dei vincitori, quella dei colonizzatori, quella di chi violenta e non vuole pagarne il prezzo anche a decenni di distanza?
Non può essere questo il punto di vista delle tantissime ragazze di tredici anni, che assieme ai loro coetanei a a centinaia di migliaia di altri giovani hanno rivendicato diritti, eguaglianza, futuro, anche colorando di Rosa la statua della vergogna.
As Ocean we Rise
Passa qualche giorno e in questa stessa città scendono in piazza 100.000 studenti giovanissimi e, assieme a milioni di loro coetanei riempiono le strade di un pensiero globale capace di agire localmente e cambiare il mondo.
Dicono ‘’quando, se non ora?’’,‘’chi, se non noi?’’, “dove, se non dapperutto?” e si propongono di contagiare il pianeta prima e più efficacemente di quanto ha fatto l’economia fossile neoliberista.
I cambiamenti climatici colpiscono in maniera paradossalmente “democratica” l’intero pianeta.
Perché è uno solo, non ce n’é uno di scorta, nessun muro potrà fermare la desertificazione o le inondazioni. Questo rende immediatamente globale la necessità di ragionare ed agire insieme, sollecita una intera generazione giustamente preoccupata dall’apocalisse, come possiamo leggere dai messaggi in tutte le lingue del mondo.
A questa moltitudine si contrappone una tendenza dominante di chi detiene le leve del potere a proteggere sé stesso, come in un film di fantascienza distopica in cui qualcuno crede di salvare la specie nel senso che sopravvive, da solo o con pochi individui, alla specie stessa. E’ l’urlo del dinosauro, espressione ironicamente usata da Michale Moore per definire l’elettore di Trump, Wasp e innamorato dell’ “american way of life” di fronte alla presidenza di un nero e al rischio di una presidenza femminile. (Michael Moore)
Proprio l’enormità della contraddizione e questa “Paranoia dei potenti” genererà più muri e più steccati, acuisce la differenza tra le oasi e il deserto.
Il passaggio di uragani come Katrina sono una sciagura per molti che restano senza casa, ma una ghiotta occasione per alti che traggono enormi profitti dalla rendita finanziaria immobiliare e una nuova abitazione di ultima generazione in un complesso green eco-tecnologico. E’ il fascismo-verde di cui parla Kali Akuno del Malcom X grassroots movement: chi è ricco potrà permettersi di attutire il colpo delle nocività, chi è povero è spacciato. Anche i cambiamenti climatici sono una questione di classe, dunque. A parità di tipologia, di ospedale, di cure, le possibilità di guarigione dal cancro aumentano secondo una proporzionalità diretta rispetto alle possibilità economiche e agli agi quotidiani ad essa connessi.
E’ una questione di “razza”: se è probabile che le guerre per l’acqua saranno la prossima frontiera dei conflitti armati per le risorse, è ancora più sicuro che in Italia una bottiglietta d’acqua costa un decimo che in moltissime zone d’Africa. La direzione dei capitali di investimento è da Europa, Stati Uniti, Cina e altri paesi ricchi verso l’America del Sud, l’Africa e altre zone penalizzate da centinaia di anni di colonialismo e sfruttamento. Quello delle risorse e, guarda caso, dei flussi migratori, di segno opposto.
E’ una questione di genere: come accade nei campi in cui vivono le donne che approvigionano l’acqua e più sono distanti i pozzi e più faticano.
Insomma, una questione che non può che suscitare un movimento globale che scavalca le nazioni e le identità, pone tutti di fronte ad una domanda in cui giustizia e sopravvivenza materiale possono coincidere. Ironicamente l’unica speranza per il pianeta è che con il clima si surriscaldino le lotte, che al sollevarsi degli Oceani corrisponda il sollevarsi di una marea umana capace di mettere in discussione lo stato di cose presenti e immaginare un futuro fatto di altri mondi possibili.
Leggi anche l’analisi del Coordinamento dei collettivi Studenteschi e del Cantiere sul movimento Fridays For Future!
System change, not Climate Change!
“O il profitto del neoliberismo o le vite degli esseri umani, noi la nostra scelta l’abbiamo già fatta: cambiamo il sistema non il clima!”
Il mondo e la sua biodiversità come la conosciamo a breve non esisterà più. Scienziati e ricerche di tutto il mondo sostengono ormai da anni che ci stiamo avvicinando ad un punto di non ritorno. L’aumento esponenziale della temperatura mondiale dovuto al buco dell’ozono, lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello del mare, l’inquinamento dell’aria che respiriamo e la drastica proliferazione dei tumori sono i sintomi di un pianeta malato. Il virus è lo sfruttamento incontrollato delle risorse della terra e di chi la abita per il profitto di pochi.
In ogni angolo del mondo le multinazionali accrescono la propria ricchezza a danno dell’esistenza di interi popoli, specie animali e territori: estraendo e monetizzando risorse naturali senza pensare ad un futuro vivibile, senza emissioni né disuguaglianze.
I maggiori motori di questa catastrofe sono le fabbriche energetiche con risorse non rinnovabili, gli allevamenti intensivi e le monocolture, l’utilizzo sfrenato di plastica e l’immenso spreco di cibo che avviene ogni giorno. I combustibili fossili costano di più delle fonti rinnovabili, la carne e le monocolture abbassano la qualità dei prodotti, la plastica impiega oltre diecimila anni ad essere smaltita e soprattutto a fronte di uno spreco del 50% del cibo prodotto ogni giorno abbiamo 800mln di persone che non riescono a sfamarsi.
Qui non si tratta soltanto di essere d’accordo o meno, si tratta di riconoscere gli avvenimenti in quanto tali, sapere che i colpevoli hanno facce e nomi e che se non vogliono accettare di cambiare rotta gliela faremo cambiare noi. Un sistema economico che definisce il successo e il progresso come un’espansione economica infinita non regge più e non lo dicono soltanto gli studenti attivisti ma gli scienziati climatici. O il profitto del neoliberismo o le vite degli esseri umani, noi la nostra scelta l’abbiamo già presa: cambiare il sistema non il clima!
Quando? Ora! Chi? Noi! Dove? Dappertutto!
Il 15 Marzo siamo scesi in piazza come studenti, ma soprattutto come giovani. La composizione dello sciopero globale infatti non è indifferente: un’intera generazione ha sollevato una vertenza urgente, potente e necessaria.
Una generazione che non accetta il fatto che i potenti si sentano sicuri di costruire i loro “mondi protetti” nel mezzo di un pianeta nel pieno di un cataclisma, o che si mostrino semplicemente disinteressati alle sorti delle generazioni future.
La questione fondamentale è che un cambiamento va fatto sì o sì e allora
‘’quando, se non ora?’’,‘’chi, se non noi?’’, “dove, se non dapperutto?”
per questo siamo scesi in piazza venerdì.
E’ stata una giornata con focolari accesi in ogni angolo del globo, i giovani in piazza chiedono a gran voce una giustizia sociale che vada di pari passo ad una giustizia climatica.
La grande portata della faccenda, ossia la fine della terra e delle specie che la abitano, è una questione che non può ridursi ad un piano individuale, cittadino o nazionale. Ne verrebbe coinvolto ciascun essere che abita la terra. Si tratta di una sfida impossibile da interpretare attraverso confini, egoismi nazionali, sovranismi.
Un movimento che connette tutto in quanto parla di pianeta nel suo insieme, tutta l’umanità e non solo; che affronta locale e globale in un solo nodo e riflette un bisogno materiale: la sopravvivenza della specie e della terra… oltre che un desiderio solidaristico-etico di giustizia.
Siamo ancora in tempo!
Fermare il cambiamento climatico tramite un cambio del sistema è ancora possibile!
Questo non ce lo dicono solo gli scienziati, ma ce lo dicono i movimenti… le moltitudini che hanno deciso di scegliere lo sciopero e la piazza.
Abbiamo già detto che la battaglia contro il cambiamento climatico coinvolge molte grandi questioni globali:
– il modello di sviluppo economico neoliberista è incompatibile con un approccio che tenga in considerazione i danni ambientali delle grandi multinazionali.
– le ineguaglianze sociali, la povertà estrema che è spesso causa delle migrazioni massicce sono causate quasi sempre dalla distribuzione ineguale delle risorse, compresa l’acqua .
– il potere del monopolio petrolifero e le guerre che si combattono in suo nome sono legate a doppio filo all’economia fossile.
– il controllo militare del mondo, i muri che separano il mondo ricco (pur pieno di povertà) da quello povero diventano inutili, o quantomeno insufficienti, di fronte alla siccità e ai cataclismi della natura.
Allora attorno a questo grido dei giovanissimi che hanno riempito la piazza di Milano potremo costruire una alleanza, una assemblea, un assemblaggio di tanti e diversi: una moltitudine capace di cambiare il mondo.