Gerusalemme bene comune, in una Palestina Libera.
La dichiarazione di Trump che riconosce Gerusalemme come capitale israeliana mette una pietra tombale sugli Accordi di Oslo e fa cadere finalmente la maschera dal supposto “processo di Pace” di cui salotti e stampa internazionale si sono tanto riempiti la bocca negli ultimi anni.
Il Re è nudo: alcuni punti che fino ad oggi erano rimasti tra i non detti della politica internazionale sono finalmente chiari e innegabili, anche da chi, negli ultimi decenni, si è premurato di gettare polvere negli occhi sulla questione palestinese e sugli assetti mediorientali in generale.
Innanzi tutto, gli Stati Uniti non sono mai stati e non hanno mai voluto essere “mediatori” del conflitto in atto: con i miliardi di dollari destinati ogni anno a fondo perduto a Israele ed al suo esercito hanno ampiamente dimostrato la loro parte (più che attiva) nelle politiche di occupazione, discriminazione ed apartheid portate avanti da Israele.
Secondo, Israele non vuole e non ha mai voluto la pace o una soluzione che riconoscesse in qualunque modo i diritti dei palestinesi, ovvero dei non ebrei.
Se così non fosse, non si capirebbe la logica (in barba alle risoluzioni ONU, nonché alle sentenze del Tribunale internazionale) dell’aumento incessante delle colonie illegali (oggi più del 90% della Cisgiordania è sotto diretto controllo israeliano e decine di migliaia di coloni vivono negli insediamenti illegali), della costruzione del muro (la cui edificazione ha portato all’annessione illegale all’interno di Israele di villaggi e territori palestinesi nonché alla distruzione di falde acquifere), dell’assedio di Gaza (che dura ormai da più di 10 anni) e delle quotidiane politiche di occupazione, apartheid, segregazione e negazione sistematica dei diritti, nonché dell’annessione unilaterale a Israele della stessa Gerusalemme Est.
Riconoscere Gerusalemme capitale di Israele è riconoscere legittimità al progetto sionista, alla riscrizione della storia, alla cancellazione dell’identità araba palestinese (cristiana, musulmana, drusa…) di cui l’occupazione si è sempre servita per raccontare a se stessa e al mondo la favola di “una terra senza popolo per un popolo senza terra”: nei 100 anni che sono passati dalla dichiarazione di Balfour e nei 50 dall’inizio dell’occupazione militare, Israele ha infatti sistematicamente promosso la cancellazione dell’identità araba e palestinese, modificando i nomi dei villaggi, radendone al suolo altri, espropriando case e terre alle famiglie palestinesi, negando ogni libertà di movimento…
La spiegazione di Trump, per cui il riconoscimento di Gerusalemme capitale e lo spostamento dell’ambasciata sono solo il riconoscimento di una realtà consolidata da tempo, è in fondo vera: si riconosce l’occupazione e la si rende legittima. Se ne legittimano le aspirazioni neocoloniali e razziste.
Ma con questa dichiarazioni si rendono evidenti come falsità anche le promesse di autodeterminazione, con cui negli ultimi 24 anni si erano blanditi i palestinesi, obbligati ad accettare l’occupazione, i bombardamenti, ogni forma di restrizione delle libertà oppure additati come terroristi che rifiutano il dialogo e impediscono il processo di pace. Soprattutto, la dichiarazione di Trump apre definitivamente la contraddizione interna all’Anp, costituita per rappresentare i Palestinesi all’interno del Processo di Pace e per assumersi le responsabilità di governo dei territori, ma diventata il cane da guardia dell’esercito israeliano e ora apertamente svuotata di ogni suo senso. Resta da vedere se i palestinesi saranno in grado, in tempi brevi, di ricostruire (dal basso, a partire dai movimenti e dalle resistenze) una rappresentanza che possa davvero dirsi soggetto politico, capace di dar voce alle rivendicazioni di una popolazione che non ha ancora smesso di lottare per la propria autodeterminazione, tagliando definitivamente i ponti con la politica degli accordi al ribasso di Abu Abbas (Abu Mazen) e dei vertici di Fatah e dell’Anp, così come i falsi proclami di Hamas.
Sicuramente lo sciopero generale di ieri e la giornata della rabbia di oggi, che hanno visto la partecipazione di centinaia di migliaia di persone in tutta la Cisgiordania e a Gaza (e insieme ad essa la repressione dell’esercito israeliano con un morto e centinaia di feriti), parlano di una partecipazione e di un movimento che non si vedevano da anni, e soprattutto di nuove generazioni scese in campo.
Infine, rimane da capire se la dichiarazione di Trump si rivelerà davvero un bene per Israele: come in Palestina, anche in altri paesi (Somalia, Egitto, Afghanistan, Arabia Saudita, Giordania, Libano…) si sono moltiplicate negli ultimi due giorni cortei e proteste contro il supposto nuovo status di Gerusalemme. Questo in un momento in cui la collaborazione (anche militare) tra Israele e il mondo arabo sunnita (a guida saudita) era ai massimi livelli, unificando le forze contro il comune nemico iraniano. Sappiamo bene, infatti, come Israele, nonostante i suoi continui proclami, abbia collaborato con l’Isis e l’Arabia Saudita in Siria (e con la seconda anche in Yemen) per limitare l’influenza iraniana.
La partita è ancora aperta, su uno scacchiere che sembra andare ben più in là del territorio di Gerusalemme: una partita che vede ancora una volta l’impero, il razzismo, il colonialismo da un lato e i popoli in lotta, dal basso, a rivendicare autodeterminazione, memoria e nuovi futuri possibili.
> Contributi e materiali utili:
Gli aggiornamenti sulle due giornate di mobilitazioni in Palestina contro le dichiarazioni di Trump
I commenti alla dichiarazione
> Israele non può manipolare la storia
Immagini delle mobilitazioni in Palestina dalla testa palestinese Maan
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Altri contributi:
Un’intervista alla storica attivista palestinese Leila Khaled, militante dell’Olp
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Analisi di John Pilger sul ruolo della Palestina oggi nella narrazione globale su Medio Oriente, guerre e strategie del terrore e securitarie
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Analisi di Robert Fisk sulla dichiarazione di Trump (english)
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