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“I sistemi politici dei Paesi del Sud, e in particolare le loro Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono a favorire la maggiore integrazione dell’area europea».

“Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo».

“I sistemi politici e costituzionali del Sud presentano le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti, governi centrali deboli nei confronti delle regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo, il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche.”

(J.P. Morgan 28 maggio 2013)

 

morgan-renziLo scontro referendario sembra caratterizzato da una componente progressista e innovativa, decisa a traghettare il paese nell’efficienza del terzo millennio e, al tempo stesso, intenta a ridurre gli sprechi del costo della politica, e una parte nostalgica, convinta che non si debba cambiare la forma perfetta di una costituzione perfetta e abituata al tranquillo trantran di un paese che va avanti così dalla fine della guerra.

Molte voci e parole si stanno spendendo in questi giorni, e certamente nei prossimi, per motivare le scelte delle due parti.

Sulla prima, quella del si, non c’è ufficialmente molto da dire. Al di là dell’importanza del cambiamento e, vorremmo dire, del cambiamento in quanto tale, indipendentemente dal concetto di miglioramento insito nello stesso, notiamo un atteggiamento un po “futurista”.

E intendiamo proprio simile al movimento culturale espressosi all’inizio del secolo scorso che fu così entusiasta di ogni innovazione che finì con il sostenere la bellezza della guerra.

Accanto al bene “progresso e cambiamento” c’è il “risparmio del costo della politica”, che risulta meno significativo quando si arriva alla parte pragmatica dei conti scritti e non sciorinati nei talk show.

Ma il pregio più importante, e naturalmente il più discusso, sembra essere quello della “certezza di governo” associando la stabilità del paese e quindi la sua ripresa economica, l’uscita dalla crisi, l’aumento del pil, gli sguardi benevoli di Junker e della Merkel, al “vincitore indiscusso delle elezioni”.

Le smentite a questa concezione non vengono solo da numerosi analisti del fronte del no che dimostrano come gli anni 50 e 60, caratterizzati dal boom economico abbiano visto succedersi fino a 6 governi nell’arco dei 12 mesi, ma ancor più da dati di estrema attualità.

La Spagna ha aumentato ora il suo pil del 3% e non ha un governo da più di 9 mesi.

Come molti scettici fanno notare “vincere” e “governare” sono due logiche estremamente diverse.

L’una presuppone la consegna del paese a una forza di governo che, uscita dalle elezioni in forma maggioritaria, imporrà il suo volere in modo indiscusso a qualsivoglia opposizione, accreditata dalla sua supremazia elettorale.

L’altra interpreta un concetto di democrazia che sembra essere superato, in cui la maggioranza media con la minoranza al fine di trovare soluzioni il più possibile condivise.

In più tiene conto di tutte le forme organizzate, non rappresentate in Parlamento, ma rappresentative di cittadini, (sindacati, associazioni, categorie, istituzioni locali, comitati) che esprimono le loro opinioni e le loro problematiche in merito all’applicazione delle leggi e il loro grado di coinvolgimento, accordo o rimostranza riguardo alla loro attuazione.

Risulta evidente che vincere fa rima con comandare e rende qualsiasi procedimento più veloce ed efficiente, ma “stacca” il comando, ancor più, se possibile, dal paese reale e da eventuali forme di opposizione che non troverebbero nessuno spazio per esprimersi.

Da qui l’accusa di trasformare i cittadini in sudditi che obbediscono ai diktat di chi occupa le posizioni chiave.

Governare fa invece rima con mediare e ottenere forme di consenso più o meno alte e magari anche cambiare proposte di legge là dove si capisce che l'attrito con la società si fa troppo aspro. Da qui l’accusa di stallo che è sicuramente caratteristica possibile, ma che appartiene alla pratica della governance.

E la logica dei “contrappesi” di cui ci parlano tanti politici della vecchia guardia (Bersani, D’Alema…) abituati a far passare le riforme convincendo il proprio elettorato.

Il fronte del no si presenta numeroso e variegato. Vi appartengono i detrattori del governo Renzi e gli aspiranti a nuove maggioranze.

Comprende fortunatamente coloro che sono capaci di leggere i cambiamenti proposti negli articoli costituzionali e di valutarli nella loro efficacia reale, portandoli a concludere che si tratta di una riforma malfatta e malscritta, confusa e di difficile attuazione.

Non quindi conservatori ad oltranza, ma persone abituate ad entrare nel merito anche per le loro professioni e competenze (Zagrebelsky, Onida…), e per nulla appassionati dell’idea che “cambiare è bello”.

Non possono mancare i rappresentanti della cosiddetta società civile che hanno sempre operato nel collegamento tra cittadini e istituzioni e si vedono tolta la possibilità di parola, principalmente ampie fette sindacali (Camusso, Landini..), ma non solo.

Questa sembra essere la situazione, a cui manca però la necessaria profondità. Una narrazione bidimensionale che potrebbe appartenere a flatlandia ed è quindi necessario capire bene dove si trova la terza dimensione.

La prima premessa che ci sentiamo di fare è che moltissime cose sono cambiate dall’inizio della crisi, e quindi non solo con il governo Renzi, ma prima ancora con Monti e Letta, mantenendo questa costituzione (anche se con l’inserimento dell’obbligo al pareggio di bilancio).

La riforma delle pensioni, il cambiamento epocale nel mondo del lavoro, dalle 46 forme diverse di precarietà, alla cancellazione dell’articolo 18 fino al jobs act e alla “buona scuola”, tutto è avvenuto con “una Repubblica fondata sul lavoro”, così come le nostre continue partecipazioni a guerre umanitarie, portatrici di democrazia sono il frutto di una costituzione dove “l’Italia ripudia la guerra” e questi articoli non sono affatto in discussione o in vista di modifiche.

Da qui la convinzione che la Costituzione è una forma scritta, la conclusione di un processo costituente che ad un certo momento storico si fissa in un compendio scritto.

Come dice la J.P. Morgan, grande colosso bancario americano, responsabile di infinite truffe, da quella dei subprime del 2011, a quella sulla manipolazione del mercato energetico del 2013, banca fallita e rifinanziata con i soldi dei contribuenti, legata alle grandi agenzie di rating, futura investitrice e risanatrice costosa del Monte dei Paschi; la

nostra costituzione è antifascista, tutela i lavoratori, permette di protestare, forse anche un pochino socialista, frutto di un periodo costituente che ha visto la guerra partigiana, il rovesciamento del regime fascista, la cacciata dei tedeschi.

Noi non siamo stati liberati…ci siamo liberati e la Costituzione ne è testimonianza scritta.

Ora accade che il mondo finanziario e la grande parte di capitale neoliberista o peggio, ordoliberista, gli artefici dell’impoverimento della classe media, della nuova accumulazione originaria perpetrata contro i lavoratori e i precari del pianeta, non apprezzi affatto le rigidità di questo sud Europa, le sue proteste, la sua rissosità, il suo esprimere caparbiamente il disaccordo.

OKI. Ridotti alla fame, distrutti economicamente, continuano a votare OKI.

E’ necessario intervenire e togliere la possibilità, la legittimità di questa opzione.

Ed ecco che Renzi, degno rappresentante di una elite mondiale di predatori, nemici della democrazia, finisce l’opera cominciata con il jobs act e la buona scuola, con i tagli al welfare e l’impoverimento generalizzato, con la precarietà e il lavoro gratuito, con l’umiliazione dei giovani e l’allungamento della vita lavorativa per gli anziani.

Apre la strada agli investimenti stranieri, alla svendita e alle privatizzazioni, alle multinazionali che fanno profitti senza pagare tasse, al lavoro salariato che diventa schiavitù, al disconoscimento, scritto su carta costituzionale, delle minoranze e delle opposizioni, al falcidiamento delle scarse briciole di tutela.

A questo servono gli assist internazionali dell’ambasciatore Usa, John Phillips, dell’agenzia di rating Fitch, i tour della ministra Boschi in Argentina, Uruguay e Brasile, con megaincontri organizzati dalle rispettive Ambasciate italiane per racimolare voti.

In aggiunta si schierano i grandi investitori internazionali, come Marchionne e i capi di Confindustria,junior e senior, tutti d'accordo che sia necessario cambiare per mandare avanti il paese…

Ed è per questo che, in suspicione aducti, da tante autorevoli voci della controparte, ci armeremo di penna il 4 dicembre per l’Oki italiano, sapendo bene che non si risolve in un giorno la resistenza e la sconfitta di questa banda di taglieggiatori, che è anzi necessario far partire un nuovo processo costituente che abbia ragione del profitto inteso come comando generalizzato e distruzione ambientale, che generi nuovi articoli di un futuro cambiamento costituzionale.

Articoli non solo antifascisti, ma anche antirazzisti e antisessisti, in virtù delle mutate forme della convivenza globale. Nuove scritture a partire da una democrazia che nasce dal basso e “costituisce” forme rinnovate di scambio e mutuo soccorso, di cooperazione sociale e superamento delle attuali identità nazionali e religiose, di comunità di diversi ed eguali che ridisegnano territori e culture che già ora cominciamo ad immaginare.

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