Riportiamo qui la trascrizione e la registrazione della lectio magistralis tenuta da Gideon Levy alla “Casa della cultura” di Milano, dal titolo “La situazione odierna in Medio Oriente e le prospettive possibili nel conflitto Israelo-Palestinese”. Ci sembra un contributo molto interessante sul tema e ne consigliamo lettura e ascolto!
Gideon Levy (Tel Aviv, 1953) è un giornalista israeliano. Dal 1982 scrive per il quotidiano israeliano Haaretz e dal 2010 anche per il settimanale italiano Internazionale.
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L’intervento comincia con una breve presentazione autobiografica e con alcune considerazioni generali, entra poi nel vivo parlando della natura del sistema politico israeliano:
Sotto la legislazione israeliana si possono distinguere 3 differenti sistemi politici effettivi:
- il sistema di facciata, la democrazia liberale in vigore per cittadini ebrei, che peraltro è una democrazia sempre più debole con leggi antidemocratiche sempre più frequenti, in cui in generale si denota una scarsa comprensione del significato stesso di democrazia, intesa solamente e genericamente come il volere della maggioranza;
- il regime in vigore per il 20% dei cittadini israeliani palestinesi, che partecipano formalmente ai processi democratici, ma subiscono discriminazione sostanziale in ogni ambito della vita;
- l’occupazione militare, una delle più brutali del mondo, un vero e proprio sistema di apartheid in cui ci sono due popoli che dividono lo stesso pezzo di terra, ma uno di questi ha tutti i diritti e l’altro zero.
La bugia numero uno è quella che definisce Israele l’unica democrazia in Medioriente: non si può essere democrazia a metà; o è democrazia per tutti o non lo è. In questo caso si tratta di una democrazia per persone privilegiate, per israeliani ebrei. Quello che mi chiedo sempre è come sia possibile che una situazione così brutale come quella dei territori occupati possa avere luogo a mezz’ora di distanza dalle case israeliane e che la società israeliana possa vivere in relativa tranquillità, senza protestare. Gli israeliani non sono dei mostri, mandano aiuti in giro per il mondo, aiutano le anziane ad attraversare la strada (anche quando le anziane non vogliono affatto attraversare la strada)…com’è possibile tanta brutalità in così tanta apparente tranquillità nella società israeliana?
La maggior parte degli israeliani è convinta che l’esercito israeliano sia il più morale del mondo. A volte provo ad insinuare il dubbio che per lo meno possa essere il secondo, non so, magari dopo il Lussemburgo (ammesso che il Lussemburgo abbia un esercito), ma questa è una possibilità che crea scandalo. Mi chiedo come sia possibile che un esercito che solo l’anno scorso ha ucciso ben 500 donne a Gaza venga percepito come il più morale del mondo?
Ho cercato di pensare a delle spiegazioni, perché per cambiare bisogna capire e ho capito che esiste un certo numero di convinzioni tra gli israeliani che rendono possibile la tranquillità di credersi nel giusto, le tre principali sono:
- “siamo il popolo eletto, pertanto abbiamo più diritti, più conoscenza”. Esiste sì il diritto internazionale, ma Israele fa un pò eccezione, ne è un pò al di sopra;
- “siamo vittime, anzi, le UNICHE vittime”. Israele è l’unico paese occupante che si presenta come vittima, come se anche l’occupazione stessa gli fosse imposta. Golda Meir, presidente israeliano nel 1969 dichiarò addirittura “non perdoneremo mai ai palestinesi di averci costretto ad uccidere i loro figli”
- molti israeliani non percepiscono i palestinesi come esseri umani loro pari il che giustifica la violazione dei diritti umani. Si tratta di un grosso processo di deumanizzazione e animalizzazione: in israele è molto diffusa la credenza che tutti i palestinesi siano nati per uccidere, che i bambini e i ragazzi si sveglino la mattina con l’obiettivo di uccidere un israeliano, come altri loro coetanei vanno a caccia di farfalle.
Queste tre convinzioni rappresentano le leve di una imponente macchina per il lavaggio del cervello che non mi fa ben sperare: negli ultimi anni il livello di vita in Israele è davvero buono e in atto una deriva militarista, razzista e nazionalista sempre più pronunciata.
Le persone si sono abituate a queste politiche di terrore, trovano normale che ogni 2 anni Israele bombardi Gaza. Certo, ci sono gruppi coraggiosi e impegnati, ma si tratta di piccoli numeri e soprattutto questi subiscono una forte delegittimazione da parte dei media. “Breaking the Silence”, per esempio, è un’associazione che cerca di far parlare i soldati in prima persona, di diffondere i racconti diretti di ciò che hanno fatto e dei crimini dell’esercito nei territori occupati. Il problema è che i vertici dell’esercito in collaborazione con i media delegittimano sistematicamente ogni voce che emerge e questo gruppo.
Purtroppo questi gruppi nella società israeliana hanno poca influenza, non credo stia sta qui la possibilità di cambiamento; la speranza viene da mondo esterno…ma quale?
- L’Europa istituzionale non fa nulla sia perchè è ancora paralizzata dal proprio passato, sia perché non è che una pallida ombra degli USA, soprattutto in politica estera. Per esempio l’Unione Europea ha di recente iniziato a segnalare sulle etichette i prodotti che provengono dalle colonie, ma contemporaneamente ha iniziato a scusarsi ripetutamente con Israele per questo provvedimento, tenendo a specificare che si tratta di una scelta tecnica e non politica. Nonstante questo, in Israele l’iniziativa è stata presentata come un passaggio “pre Auschwitz”, come se stessero nuovamente etichettando gli ebrei, ma se un prodotto è rubato è dovere minimo dell’autorità segnalare che è di tale natura, se c’è un’acqua in vendita il compratore a diritto di sapere cosa contiene e da dove proviene, lo Stato ha il dovere di segnalarlo. A parte diritti e doveri, questa e’ stata presentata come sanzione internazionale, ma la verità è che Israele non ha mai ricevuto una sanzione dall’inizio dell’occupazione.
- Poi ci sono gli USA, ma qui si ha la complicata situazione nella quale non si riesce bene a capire quale sia la superpotenza. Obama è stata la più grande speranza e di conseguenza la più grande delusione, avendo dimostrando di voler lasciare totale carta bianca ad Israele. Per di più questa condizione avviene in anni in cui Israele dipende dall’appoggio statunitense più che mai, non solo militarmente ed economicamente, ma anche politicamente.
- L’ultima fonte di speranza che resta è la società civile e l’opinione pubblica internazionale…l’opinione pubblica ha dimostrato in questi anni di scostarsi con sempre maggiore consapevolezza da governi e media. La Speranza risiede nelle organizzazioni e nella campagna bds. Non è facile per me dirlo come israeliano che vivo in Israele, ma finchè gli israeliani non saranno chiamati a pagare il conto per le loro azioni non potrà esserci cambiamento. Si tratta di una via lunga ma deve pur iniziare e il più grande incoraggiamento l’ho avuto in Sud Africa: se il boicottaggio ha funzionato li, non c’è ragione perché non funzioni anche in Israele. La situazione in Sud Africa è iniziata a cambiare quando la business community (le imprese private) hanno cominciato a rivolgersi al governo dicendo che così non riuscivano più ad andare avanti.
Le persone hanno perso fiducia nella soluzione a due stati, io compreso. La domanda allora è quale sia la soluzione. Chi sostiene la proposta dei due stati sa benissimo che non si verificherà mai e ne parla per prolungare status quo e prendere tempo. Io penso che l’alternativa sia la soluzione a uno stato, il problema qui è di regime! E’ importante riuscire a cambiare i termini del discorso e non cadere nel gioco anacronistico della soluzione a 2 stati e porre l’attenzione sulla necessità dell’uguaglianza dei diritti, del principio “una testa-un voto”. Che ragioni può addurre Israele contro il principio “una testa-un voto”? Sicurezza? Bibbia? Religione? L’unica cosa che possono dire è gli ebrei hanno più diritti in questo Stato, il che sancirebbe in via definitiva e innegabile l’esistenza di un regime di apartheid. La domanda allora si rivolgerebbe ineluttabilmente al mondo: è pronto il mondo ad accettare un altro apartheid e per quanto tempo?
È difficile capire cosa significa vivere sotto occupazione israeliana e non mi riferisco alla violenza nei suoi casi estremi (ma frequentissimi), come la carcerazione senza processo, le punizioni collettive o la demolizioni delle case, ma mi riferisco alla quotidianità dell’umiliazione: ai bambini testimoni delle umiliazione ai loro genitori, prelevati dai letti e picchiati, all’impossibilità di pianificare alcunchè, alla libertà di movimento vissuta come dono che i soldati possono accordare o no a piacimento. La situazione non è cambiata negli anni anni e non si è alleggerita. L’occupazione è sempre stata li, come è sempre stata li la resistenza.
Tutto questo capita a un popolo che ha già avuto una notevole quota di sofferenze nel 1948 ed è uno dei più tolleranti della terra rispetto a ciò che subisce. Tutto ciò avviene a tre ore di aereo da qui (Milano), per mano di uno dei paesi più privilegiati del mondo. Se prendi parola e denunci questa realtà Israele ti chiama antisemita, collaboratore dei terroristi. Israele fa di tutto per zittire ogni critica, ma qualunque persona di coscienza deve chiedersi “va bene che questa realtà continui così col nostro silenzio e col nostro tacito appoggio o è ora di produrre un cambiamento, soprattutto perché non è così difficile vista la grande dipendenza di Israele dall’Europa e dagli USA?
Non sono ingenuo, so che si tratta di una strada molto lunga, l’odio e la paura israeliani e palestinesi hanno raggiunto livelli senza precedenti, anche perché le persone dei due popoli non hanno più occasioni di incontrarsi, ci vorrà molto tempo per curare ferite lasciate dalle emozioni negative, ma non voglio lasciarvi così, citerò tre fonti di speranza:
- spesso nella storia i cambiamenti sono avvenuti in maniera inaspettata e con tempi imprevedibili: se fossi venuto qui negli anni ’80 e vi avessi detto che l’URSS e il muro di Berlino sarebbero crollati, che l’apartheid sudafricano sarebbe terminato, mi avreste preso per pazzo e non mi avreste più invitato;
- nell stato del New England ho visto un grande albero che all’apparenza sembra forte, ma che quando lo tagli si abbatte subito. Quando è a terra è facile notare che l’interno è completamente marcio…ecco, la società israeliana oggi è completamente marcia;
- una volta un saggio di questa parte del mondo ha detto che in Medio Oriente bisogna essere sufficientemente realisti da credere nei miracoli…
La relazione lascia spazio alle tante domande dai presenti in sala, la parola torna a Gideon Levy, in particolare:
- sulla situazione della intifada di queste settimane:
Non so se sia giusto chiamarela intifada o meno, non sono sicuro nemmeno che sia importante deciderlo; la vera domanda è perché non sia successo prima. Chiunque abbia mai pensato che i palestinesi si sarebbero prima o poi arresi ha dimostrato di non conoscere storia, psicologia e umanità: la resistenza c’è sempre stata; la prima intifada è stata quella delle pietre, la seconda è stata quella degli attachci suicidi e ha avuto effetti molto distruttivi per i palestinesi stessi, ora arriva la più pericolosa delle intifade, perché questa volta non ha nè organizzazione, nè comando nè armi ed è totalmente costituit da azioni individuali di uomini e donne, di giovani e anziani che si alzano la mattina e decidono di non poter più continuare così e intraprendono azioni anche inefficaci, come i tentativi di accoltellamento contro israeliani. A conti fatti finora queste azioni hanno causato 25 vittime sono israeliane e più di 100 palestinesi, quindi è chiaro che queste azioni non sono molto intelligenti. Ci troviamo di fronte a un tipo di lotta imprevedibile per ogni intelligence perchè non si può leggere nella mente delle persone e che in ogni caso ci schiaffa in faccia la disperazione di una persona che tenta un gesto con così poche speranze di riuscita, come nel caso della ragazza di 16 anni che si è presentata con un coltello al check point e che è stata ammazzata subito, nonostante sarebbe potuta essere disarmata facilmente. Bisogna tener conto che i due popoli di fatto non hanno mai occasione di incontrarsi dalla seconda intifada e dalla costruzione del muro. Prima esistevano terreni di incontro anche se non paritetico, ora l’incontro avviene solo con l’esercito. Tutti i movimenti e gli episodi delle ultime settimane ad ogni modo ci ricordano come i palestinesi non si sono mai arresi e non si arrenderanno mai.
- sull’opinione dei palestinesi a proposito della soluzione a 1 stato:
Sulla visione dei palestinesi della soluzione a uno stato c’è un sondaggio che mostra che un’adesione crescente a questa prospettiva, ma al di là del dato statistico c’è quello della mi esperienza umana: il sentimento popolare prevalente palestinese è la volontà di vivere insieme, quello israeliano è all’insegna della separazione, e questa è una differenza molto sostanziale.
- sulle conseguenze della strage di Parigi in Israele:
Riguardo all’influenza dei fatti di Parigi, si può dire che l’elemento principale sia la strumentalizzazione di Israele che ne approfitta per portare acqua al suo mulino, proponendo analogie tra Isis e i ragazzi palestinesi che scendono in strada. Per di più il governo israeliano non ha esitato a rinfacciare all’Europa di trovarsi ora nella condizione di agire come ha fatto lui negli ultimi decenni.
- come si fa a pensare a una soluzione finchè rimane l’odio?
Non c’è soluzione finchè c’è odio? Io penso sia il contrario, finchè non ci sarà una soluzione ci sarà odio. Nel ’45 pensate si potesse immaginare che Francia e Germania diventassero alleate o addirittura Germania e Israele? Storicamente sono le soluzioni che disinnescano l’odio.
- sulla semplicità della giustizia:
Non si tratta di essere pro-palestina o pro-israele, pro o contro i sionisti, ma si tratta di essere pro-giustizia e in questo quadro la giustizia è chiara. E’ importante non dare credito a chi dice che non è tutto bianco o nero. In questa situazione invocare la complessità serve solo a nascondere la chiarezza. Il primo obiettivo non è la pace, che può essere un bonus che però viene solo dopo la giustizia, in un contesto dove è lampante che c’è un occupante e un occupato.
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